Guillermo Arriaga, Salvare il fuoco, 2020

A una cena offerta da Enrique Sierra, il direttore di El Intrigante, la più importante rivista di danza dell'America Latina, un tizio ormai brillo, marito di un'avvocata, cominciò a recriminare che in Messico mancavano rigore e talento, e che eravamo condannati a un'arte mediocre, da terzo mondo. “Non ci mettono impegno, si rifiutano di essere grandi artisti, come Picasso o Camus” disse. Lucien ascoltò con pazienza le sue invettive. Quando terminò, lo interrogò. “Lei gioca o ha giocato a calcio?” Il beone si raddrizzò tronfio sulla sedia. “Certo, e sono quasi diventato professionista, con i Pumas.” Lucien sorrise. “Ah, professionista! E si è allenato molto duramente per diventarlo?” L'ubriaco gonfiò il petto. “Durissimamente.” Lucien sorrise di nuovo. “E come mai non è riuscito ad arrivare al livello di Zidane?” (In materia di calcio, Lucien usava soltanto riferimenti francofili. Niente Maradona, Pelé, Messi o Cristiano Ronaldo.) Il tizio fece un sorriso idiota. “Non è facile.” Lucien lo fissò. “Si può dire che non ci è riuscito.” L'altro annuì. “Be’, nell'arte è uguale, amico mio. Si fa quel che si può.” La risposta sembrò sorprendere l'ubriaco. “Allora non è che non ci mettono impegno, è che non ci riescono.” “Esatto” rispose Lucien, “nell'arte si fa quel che si può, non quel che si vuole.”