Vladimir Nabokov, Cose trasparenti, 1972

Forse, se il futuro esistesse in modo concreto e individuale, come qualcosa che può essere percepito da un cervello superiore, il passato non sarebbe così seducente: le sue esigenze risulterebbero controbilanciate da quelle del futuro. Le persone potrebbero allora stare a cavalcioni sul punto centrale dell'asse in bilico mentre contemplano questo o quell'oggetto. Potrebbe essere divertente.

María Zambrano, “Sur”, novembre-dicembre 1969

L'attitudine filosofica è quanto di più simile ci sia a un congedo, alla partenza del figliol prodigo dalla casa del Padre: dalla tradizione ricevuta, dagli dèi incontrati, dalla familiarità e perfino dal mero commercio con le cose, così come questo si è venuto consolidando con l'abitudine. Più che a ogni altra cosa, essa fa pensare a un rigetto di tutto ciò che si era ricevuto non meno radicale di quello che mostrano certe luminose vocazioni religiose, che molto possiederebbero di demoniaco agli occhi del mondo se il mondo fosse capace di accorgersi di loro nel momento in cui si producono piuttosto che dopo, quando ormai sono storia.

Gilda Policastro, Sotto, 2013

La prima volta che va a cena con loro è spaventatissima, si è persa un sacco di pezzi di conversazione già dopo mezz'ora, rimane sempre indietro di una parte. Non si parla di quadri, o di mostre, ma di questo e di quello, del come e perché si trovi nel tal posto e chi e quando ce l'abbiano sistemato. Non è una conversazione dotta ma ne ha l'apparenza, perché sapere tante cose (impara Camilla, impara) serve a stabilire nessi, e più nessi individui tra i fatti, più sei in grado di parlare, e più parli, specie se tanto e bene, meglio puoi passare per una che sa. A lei non si richiede, in verità: capisce subito che può stare anche zitta. Il meglio sarebbe sorridere, ma se proprio non ci riesci, evita del tutto di esprimerti: li lascerai nel dubbio, invece che scontenti di qualcosa che dici troppo frettolosamente in modo inappropriato. E poi cosa potresti dire, tu, che non sappiano già? Una tua impressione? E perché dovrebbe contare un parere, un parere fra tanti, dei meno importanti, che non hai nessun ruolo, nessuna autorevolezza in nessun campo e non sei nemmeno più una di quelle ragazzine giovani, che si spizzano con curiosità entomologica sotto la vita bassa. Quando non parlano di posti occupati o da occupare, è di questo che parlano: delle studentesse.

Flann O'Brien, “Envoy”, maggio 1951

Anche un episodio del genere potrebbe sembrar buffo, ma il fatto curioso è questo: che Joyce impiegò tutta la vita per trasformarsi in un personaggio letterario. Con un'attrazione di tipo narcisistico, egli creò Dedalus, l'uomo senza età. Introducendo nei suoi libri personaggi presi dalla realtà, egli riuscì con grande maestria a ottenere l'effetto opposto, ossia a renderli romanzeschi e leggendari. Ciò, ovviamente, si scontra col senso comune. Migliaia di persone credono infatti che un tizio di nome Sherlock Holmes sia esistito davvero.

Thomas Mann, Doktor Faustus, 1947

«Perplessità» è un'eccellente espressione; io ne ho sempre avuta un'alta considerazione filologica. È parola avvolta dalla luce ambigua che scaturisce sia dal lato ammirevole sia da quello equivoco di una cosa o di un uomo, e che invita ad affrontare ma anche a evitare un argomento o, in ogni caso, ad avvicinarlo con grande cautela.

Carlo Sini, Sentire il mondo, 2005

Ma colui che nasce viene al mondo sull'onda del primo battito che riesce ad avvertire. Come questo accada è un mistero. Come faccio io a nascere dicendo: «ecco il battito della mia mamma»? Come posso avvertirlo io, che prima non c'ero? Si viene infatti al mondo con questa prima percezione. Un tale interrogativo schiude il grande enigma del tempo, che è anche l'enigma del concetto, del riconoscimento, del pensiero. Dobbiamo dire francamente che noi non siamo mai presenti al primo battito. Si viene al mondo non in un'origine assoluta: si viene propriamente al mondo con il secondo battito. Avvertire qualcosa a un certo punto significa infatti che il feto dice a se stesso: «oh, eccolo di nuovo, il battito». Questo riconoscimento rappresenta il concetto, il pensiero, il segno. In altre parole: io non posso conoscere il mondo, né il battito che mi fa venire al mondo. Posso soltanto riconoscerlo, posso cioè dire «eccolo di nuovo». Ciò che siamo in grado di conoscere è il ritmo, non l'origine di questo battito. L'origine è retroflessa nel secondo battito, che dice: «ecco che viene ancora il primo». Ed è così che si dà un primo, un'origine, una madre. Così si dà un mondo.

Jonathan Coe, Donna per caso, 1987

“Non lo so” disse Maria. “A volte ho la sensazione che negli ultimi anni ho combinato meno che in tutto il resto della mia vita. Ma poi non sono nemmeno sicura di aver mai combinato qualcosa. Non sono nemmeno sicura di sapere cosa significa. Una volta ho messo qualcuno al mondo, un bambino, ma non c'è molto altro.” Fece un sorriso, un sorriso rapido e contratto, poi ripeté: “Non c'è molto altro”.

Flannery O'Connor, Scrivere racconti, 1957

Ho una zia che pensa che in un racconto non succeda niente se alla fine non c'è un matrimonio o una fucilazione. Ho scritto una volta un racconto, la storia di un vagabondo che sposa la figlia ritardata di una vecchia per venire in possesso dell'automobile di quest'ultima. Dopo il matrimonio, parte per il viaggio di nozze con l'automobile e con la ragazza ritardata, che abbandona in un'area di ristoro per proseguire il viaggio da solo. Si tratta di una storia dotata di completezza. Non c'è altro da dire sul mistero della personalità del protagonista attraverso quella particolare drammatizzazione. Eppure non sono mai riuscita a convincere mia zia che questa è una storia completa. Continua a chiedermi che fine ha fatto la ritardata.

Jonathan Littell, Le benevole, 2006

Se l'avessi domandato a Zorn, sapevo che mi avrebbe risposto: «Proprio per approfittarne prima di crepare, per godere un po'», ma non ce l'avevo con il godimento, anch'io sapevo godere quando volevo, no, ce l'avevo probabilmente con la loro terribile mancanza di autoconsapevolezza, con quel modo straordinario di non pensare mai alle cose, a quelle buone come a quelle cattive, di lasciarsi trascinare dalla corrente, di uccidere senza capire perché e senza nemmeno darsene pensiero, di brancicare delle donne perché erano disponibili, di bere senza nemmeno cercare di assolversi dal proprio corpo. Ecco cosa non capivo, io, ma non mi si chiedeva di capire.

Graham Harman, “Filozofski vestnik”, 2012

Se il metodo e la conoscenza consistono nel localizzare le qualità delle cose, la filosofia è un contro-metodo e una contro-conoscenza il cui obiettivo è giungere alla cosa-in-sé separata dalle sue qualità. Ma se la filosofia combatte una battaglia in solitaria nella sua ambizione a considerare tutti i tipi di oggetti (inclusi quelli non reali), non è la sola disciplina a presentarsi come contro-metodo e contro-conoscenza: sua parente prossima è l’arte. Al contrario, persino l’etimologia della parola “scienza” tradisce la sua aspirazione a essere un tipo di conoscenza che consiste in un accesso diretto alle qualità delle cose, guidato da un forte scetticismo nei confronti di entità fantasmatiche in eccesso, non accessibili a una forma di intelletto di tipo discorsivo.

Ermanno Cavazzoni, Manualetto per la prossima vita, 2024

A differenza dei pesci, degli insetti, dei rettili e degli altri mammiferi, noi umani viviamo in mezzo agli spiriti, cioè a esseri che non si vedono ma che ci premono e ci condizionano. E ci auguriamo di diventare dopo la vita pure noi spiriti, per continuare bene o male a vivacchiare nei posti dove avevamo vissuto. Col passare del tempo gli spiriti quindi si accumulano, e si concentrano negli appartamenti come sardine in scatola, dove passano il tempo a osservare la vita degli abitanti che si dicono ancora vivi.

Veronica Raimo, Miden, 2018

Ho finito di rispondere al questionario. Avevo l'impressione che avrei potuto rispondere indifferentemente sì o no a tutte le domande e non avrei comunque mentito.

Paul Auster, La musica del caso, 1990

«Cominci a sembrarmi un po' Flower, Jack. Il tizio vince una lotteria, e tutto d'un tratto pensa di essere stato eletto da Dio.»
«Non sto parlando di Dio. Dio non c'entra niente con questo.»
«È semplicemente un'altra parola per la stessa cosa. Tu vuoi credere in un fine nascosto. Cerchi di persuaderti che c'è una ragione per ogni cosa che avviene in questo mondo. Non ha importanza come lo chiami - Dio o fortuna o armonia - si finisce sempre nelle stesse palle. È un modo di evitare i fatti, di rifiutarsi di osservare come vanno davvero le cose.»

Giuseppe Rensi, La filosofia dell'assurdo, 1937

Mi diventa sempre più sbalorditiva e violenta l'impressione che la vita sia fondata su questo fatto semplicissimo e famigliarissimo: il mangiare. Perché, cosa vuol dire mangiare? Che una vita distrugge lietamente, saporosamente un'altra vita per incorporarsela; che deve distruggere per conservarsi. Ma che vuol dire dunque che per vivere occorra necessariamente mangiare, che la vita per reggersi abbia imprescindibile bisogno del mangiare? Vuol dire che la vita (la realtà) per esistere ha bisogno di distruggere se stessa. Una realtà che si mantiene solo annientandosi, che si afferma solo togliendosi, che si pone solo negandosi. Non è forse ciò, per la nostra mentalità, l'espressione stessa dell'assurdo?

Olga Tokarkzuk, I libri di Jakub, 2014

Molte sono le cose vietate nel monastero e ciò nonostante c'è di tutto: sia vino valacco e ungherese sia vodka, e pure sul tabacco si chiude un occhio, quindi quei divieti sono comunque inefficaci. A dir la verità operano solo all'inizio, poi la natura umana con il suo lungo dito comincia a farvi un buco, all'inizio piccolo, che poi, se non incontra nessuna resistenza, diventa sempre più largo, finché il buco non diventa più grande di ciò che buco non è. Succede sempre così con ogni divieto.

Daniel Keyes, Fiori per Algernon, 1966

Non so bene, in ogni modo, che cosa voglia dire quoziente di intelligenza. Il professor Nemur ha detto che è qualcosa per misurare quanto si è intelligenti... come una bilancia dal droghiere pesa i chilogrammi. Ma il dottor Strauss ha avuto con lui una lunga discussione e ha detto che il quoziente non pesa affatto l'intelligenza. A parer suo, il quoziente di intelligenza misura la capacità di essere intelligenti, come i numeri all'esterno di una provetta. Resta sempre da riempire la provetta con qualcosa.

Ernesto Aloia, Camere oscure, 2024

Cosa cerca davvero Gatsby, Daisy oppure la luce verde tremolante sulla lontana sponda dello stretto? Non è una donna che vuole recuperare ma, al di là delle apparenze, un momento preciso del passato, il momento in cui tutto era ancora possibile. Il momento cosmogonico delle nostre vite. Quando, come prima dell'inizio del tempo, tutte le possibilità erano ancora rinchiuse in un punto senza dimensioni, tutte coesistenti, tutte ugualmente attive.

Antonio Moresco, Gli increati, 2015

Ci sono schiere di scrittori vivi nelle città dei vivi, che combattono gli uni contro gli altri come se fossero vivi. Si sbranano per contendersi un tempo che non c'è più, che non c'è mai stato, che non ci sarà. Combattono per restare vivi, per diventare morti. Si gettano con i loro volti morti e con le loro frenetiche codine morte lungo il canale uterino della vita morta, e ognuno di loro vorrebbe essere il primo a sfondare l'ovulo della vita che sta dentro la morte. C'è un'enorme placenta ormai sul punto di scoppiare che contiene tutti gli scrittori di questa epoca finale della cosiddetta vita umana e del mondo. Se ne stanno là, addormentati e atterriti, con le loro manine che stringono anche nel sonno le loro piccole narrazioni dislocate dentro un tempo che non c'è più, con i loro occhietti sbarrati anche nel sonno, schiere di corpicini allineati nel buio come negli universi larvali sotterranei degli insetti.

Zadie Smith, Cambiare idea, 2010

La profonda ostilità di Nabokov nei confronti di Freud non era un capriccio casuale: a farlo inorridire era proprio la teoria dell’inconscio. Non sopportava di ammettere l’esistenza di un potere secondario in grado di dirigere e dirottare il suo. Penso a quella deliziosa idea di Kundera: «I grandi romanzi sono sempre un po’ più intelligenti dei loro autori». È questo, in parte, ciò che Barthes aveva da dirci e ciò che Nabokov voleva contestare. Forse ogni scrittore ha bisogno di mantenere la fede in Nabokov, e ogni lettore in Barthes.

Solvej Balle, Il volume del tempo | 1. L'enigma, 2020

Thomas non dubitava che io dicessi la verità. Aveva parlato con me ma se ne era dimenticato. E questo fatto lo spaventava. Una cosa era che avessi riscontrato un guasto nel normale tempo precedente, ma il fatto che lui avesse preso parte di persona al mio giorno, che avesse intrattenuto conversazioni e compiuto atti che non ricordava, evidentemente gli procurava lo stesso senso di vertigine e di agitazione che avevo provato io vedendo la fetta di pane planare verso il pavimento. Lo strano attimo in cui ti manca la terra sotto i piedi, e di colpo ti sembra che tutta la prevedibilità di questo mondo può essere soppressa, come se all'improvviso fosse scattata un'allerta massima esistenziale, un quieto panico, che non ti spinge a fuggire né a gridare aiuto, e non richiede ambulanze né squadre di soccorso. È come se questa allerta si trovasse pronta in fondo alla coscienza, quasi come un fondamentale di cui solitamente non hai percezione, ma che si attiva non appena noti l'imprevedibilità del mondo, la consapevolezza che tutto può cambiare in un attimo, che quel che non può accadere, che non ci aspettiamo assolutamente, è comunque possibile. Che il tempo si fermi. Che la gravità cessi. Che la logica del mondo e le leggi della natura crollino. Che dobbiamo riconoscere che la nostra aspettativa riguardo all'invariabilità del mondo poggia su fondamenta fragili. Non ci sono garanzie, e dietro a tutto ciò che abitualmente riteniamo certo ci sono eccezioni improbabili, rotture improvvise e inimmaginabili violazioni delle leggi vigenti.

Paola Randi, intervista 4 giugno 2018

Mio padre era di Palermo, mia madre di Venezia, sono andati a Milano a vivere, mia sorella sta a Londra e io a Roma. Into Paradiso è nato anche dal fatto che allora i giornali parlavano di emergenza sicurezza collegandola sempre agli immigrati. Una cosa mi colpì molto: in un Paese che ha ben tre tipi diversi di mafia e condannati e collusi col crimine perfino in parlamento, che il pericolo nazionale fosse dato dai rifugiati a me sembrava una cosa folle. Quindi sono andata a cercare di capire chi fossero queste persone, e a Napoli l'immagine che mi ha aperto la strada è stata quella di piazza Dante, divisa tra gli scugnizzi da una parte che giocavano con una pallina da tennis, e gli srilankesi eleganti, dall'altra, a cricket.

Javier Cercas, L'impostore, 2014

Cos'è il kitsch? Prima di tutto, è un'idea dell'arte che implica una falsificazione dell'arte autentica, o come minimo la sua svalutazione sensazionalistica; ma è anche la negazione di tutto ciò che nell'esistenza umana risulta inaccettabile, nascosto dietro una facciata di sentimentalismo, bellezza fraudolenta e virtù posticcia. Il kitsch è, in poche parole, una menzogna narcisistica che nasconde la verità dell'orrore e della morte: così come il kitsch estetico è una menzogna estetica (un'arte che in realtà è una falsa arte) il kitsch storico è una menzogna storica (una storia che in realtà è una falsa storia). [...] Così come l'ormai vecchia industria dell'intrattenimento ha bisogno di alimentarsi del kitsch estetico, che regala a chi lo consuma l'illusione di star godendo dell'arte autentica senza chiedergli in cambio nessuno degli sforzi che quel godimento richiede né costringerlo a esporsi a nessuna delle avventure intellettuali e a nessuno dei rischi morali che comporta, la nuova industria della memoria ha bisogno di alimentarsi del kitsch storico, che regala a chi lo consuma l'illusione di conoscere la storia reale risparmiandogli sforzi, ma soprattutto risparmiandogli le ironie e le contraddizioni e i disagi e le vergogne e le paure e le nausee e le vertigini e le delusioni che quella conoscenza procura.

Giuseppe Berto, Dopo la rovina, 1953

Per la prima volta nella nostra storia avevamo assunto un ruolo da protagonisti e siamo clamorosamente falliti. Ed ora, invece di additare le cause di quel fallimento nelle nostre ambizioni sbagliate e nella nostra incapacità a svolgere un compito che evidentemente non era il nostro, ci ostiniamo ad incolpare pochi, come se noi in quel tempo non avessimo partecipato alle vicende di cui eravamo bene o male attori. È troppo facile dire: ci hanno ingannati. Bisognava avere la stoffa della gente che non si lascia ingannare. Ed è ancora più disonesto dire: non ci hanno ingannati ma ci hanno costretti, e noi da furbi siamo vissuti in attesa del giorno in cui tutto il castello delle ridicolaggini retoriche sarebbe crollato. Bisognava avere la stoffa della gente di ribellarsi alle cose ridicole che portano alla rovina. Invece non abbiamo fatto nulla, siamo andati da ignavi incontro alla nostra più grande disfatta. [...] Il popolo aveva paura, i soldati avevano paura. Troppi scappavano appena era possibile, io per primo. Non c'è vergogna a riconoscerlo. È assurdo pensare che tutta la grandezza di una nazione consista nella più grande capacità di affrontare la morte o di dare la morte. La guerra non è la più nobile tra tutte le cose, ed è ridicolo che ci ostiniamo a predicarlo noi, che la guerra da molti secoli non la sappiamo fare.

Richard Powers, The Overstory, 2018

Mentre il bambino si allontana a tutta velocità, i Graham si mettono a ridere. Dal pianerottolo, a metà scala, Adam sente sua madre sussurrare: «È un po' asociale. L'infermiera pediatrica dice di tenerlo d'occhio».
La parola, pensa lui, significa speciale, forse dotato di superpoteri. Una cosa cui le altre persone devono fare attenzione. Una volta al sicuro nella camera dei maschi all'ultimo piano, chiede a Emmett, di otto anni - quasi un adulto: «Cosa vuol dire asociale?»
«Vuol dire che sei un ritardato.»
«Che significa?»
«Che non sei normale.»
Ed è una cosa che sta bene ad Adam. C'è qualcosa di sbagliato nelle persone normali. Non sono affatto le creature migliori del mondo.

Marlen Haushofer, La parete, 1963

Gli uomini forse meritano maggiore commiserazione perché posseggono giusto quel tanto di giudizio per opporsi al naturale corso delle cose. Ciò li ha resi disperati e cattivi, e poco amabili. Eppure, sarebbe stato possibile vivere diversamente. Non esiste impulso più ragionevole dell'amore. Rende la vita più sopportabile sia all'amante che all'amato. Solo, avremmo dovuto riconoscere che si trattava della nostra unica possibilità, della nostra sola speranza in una vita migliore. Per un esercito infinito di morti, l'unica possibilità dell'essere umano è perduta per sempre. Continuo a pensarci. Non riesco a capire perché dovremmo imboccare la strada sbagliata. So solo che è troppo tardi.

Giulio Mozzi, Sono l’ultimo a scendere..., 30 marzo 2005

Io prendo il fiato e dico: «Non è vero che il fine giustifichi i mezzi. Più precisamente: non solo non è vero che qualunque fine giustifica qualunque mezzo, ma è vero invece che nessun fine giustifica qualunque mezzo. Ciò detto, sarebbe l’ora di finirla non solo con questa machiavellica storia del fine che giustifica, cioè rende giusti i mezzi, ma anche con un’altra storia, che con questa ha una parentela stretta, benché segreta. E cioè che vi siano fini che sono giusti in sé, indipendentemente dai mezzi. Ahimè no: non solo non è il fine che da solo decide della giustezza dei mezzi, ma sono anche i mezzi che decidono, in quanto mezzi (per esempio nella loro disponibilità o indisponibilità), della giustezza del fine. Il che non significa affatto, e qui concludo, che purché siano giusti i mezzi, ogni fine con essi conseguito è giusto. È chiaro?».

Isaiah Berlin, “Lettera Internazionale” n. 16, 1988

La mia conclusione è che l’idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile, ma - se vedo bene, e se tra alcuni valori il conflitto è inevitabile - è anche incoerente. La possibilità di una soluzione finale - anche a voler scordare il senso terribile che questa espressione assunse al tempo di Hitler - si dimostra un’illusione; e assai pericolosa, per giunta.
Infatti, se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di arrivarvi: arrivare a un’umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarci una volta per tutte, per sempre - quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? Se questa è l’omelette, non c’è limite al numero di uova che si devono rompere.

Philip K. Dick, Valis, 1978

In altre parole, l’universo stesso (e la Mente dietro di esso) è pazzo. Perciò qualcuno in contatto con la realtà è per definizione in contatto con la pazzia: infuso di irrazionale.
In essenza, Fat scrutò la sua mente e la trovò difettosa. In seguito, usando quella stessa mente, scrutò la realtà esterna, ciò che viene chiamato macrocosmo. La trovò altrettanto difettosa. Come postulavano i filosofi ermetici, il macrocosmo e il microcosmo si riflettono fedelmente. Fat, usando uno strumento difettoso, indagò su un oggetto difettoso, e dalla sua indagine ricavò la conclusione che tutto era sbagliato. E in aggiunta a tutto questo, non c’era via di uscita. La combinazione di strumento difettoso e oggetto difettoso produsse un’altra perfetta trappola cinese per dita. Intrappolato nel suo labirinto, come Dedalo che costruì il labirinto per Minosse re di Creta, poi ci finì dentro e non poté più uscire. Presumibilmente Dedalo è ancora lì, e così tutti noi.

Joyce Carol Oates, 8 peccati capitali, 1994

Forse il lettore ideale è un adolescente: irrequieto, vulnerabile, appassionato, affamato di sapere, di volta in volta scettico e ingenuo, fiducioso nel potere dell'immaginazione di cambiare, se non la stessa vita, la nostra comprensione della vita. Quanto più rimaniamo adolescenti, tanto più rimaniamo dei lettori ideali, per i quali l'atto di aprire un libro può essere un atto sacro, carico di rischi psichici. Per un simile lettore ogni opera di una certa importanza significa assimilare una voce nuova - dell'uomo del sottosuolo di Dostoevskij, o di Zarathustra di Nietzsche - e mutare continuamente il proprio mondo interiore.

László Krasznahorkai, Seiobo è discesa quaggiù, 2008

ma ciò aveva reso il palazzo solo leggermente più pulito, più uniforme, ma senza cambiarlo, non era diventato più fresco, o più luminoso, o più chiaro, non lo avevano “riportato all'aspetto originario”, come facevano spesso in altre città quando si mettevano a restaurare un edificio, perché in quei casi lo ristrutturavano davvero, cercando di restituirgli l'aspetto di un tempo, così come se l'immaginavano loro, sebbene ciò sia un'assurdità, poiché tutti i materiali sono diversi, l'aria è diversa, l'umidità è diversa, sono diversi gli agenti inquinanti, e sono diverse anche le persone che lo subiscono, che lo guardano, che ci camminano intorno

John Rawls, Justice as Reciprocity, 1959

A prima vista può sembrare che giustizia ed equità siano lo stesso concetto, e che non c'è ragione per distinguerle. Certo, nel discorso ordinario può accadere che le frasi che esprimono tali nozioni non siano immediatamente intercambiabili, ma questa potrebbe essere una questione di stile e non un segno di differenze concettuali importanti. Credo che tale impressione sia errata, anche se non è priva di fondamento. Giustizia ed equità, infatti, sono concetti diversi, ma condividono un elemento fondamentale, che chiamerò il concetto di reciprocità. Esse rappresentano questo concetto in relazione a due casi distinti. In maniera molto approssimativa, la giustizia a una pratica in cui non c'è scelta se partecipare o meno, e si deve farlo necessariamente. L'equità a una pratica in cui si dispone di tale opzione, e si può declinare l'invito.

Jutta D'Arrigo, “leggere”, gennaio-febbraio 1993

Stefano sapeva quello che voleva dalla scrittura e quando non era soddisfatto distruggeva il suo lavoro. Tempo fa lo ha fatto per un romanzo del quale aveva già scritto almeno cinquecento pagine. Si trattava di un'idea straordinaria, la storia di uno scrittore colpito dal morbo di Alzheimer, la storia della sua scrittura prima e dopo la malattia. Ci ha lavorato per dei mesi, poi mi ha chiesto di nasconderglielo in un cassetto perché aveva bisogno di riflettere ancora. Quando lo ha ripreso in mano ha continuato a lavorare con l'ossessione che lo coglieva sempre quando creava. Poi, una mattina, ho trovato il romanzo a brandelli nella spazzatura. Non gli ho chiesto nulla, non ce n'era bisogno.

Ermanno Cavazzoni, Il limbo delle fantasticazioni, 2009

Siamo circondati da cose finte. Non è un male. Siamo immersi nei simboli, in tutta la gamma dei loro tipi, che vanno dall’analogico all’arbitrario; col vantaggio che una zampa di leone che fa da piede ad un mobile non mette a rischio d'estinzione la specie, non mette a rischio il cacciatore africano, non fa le tarme e non perde pelo come la roba imbalsamata, e nello stesso tempo dà luogo occasionalmente a qualche modesta fantasticheria in un bambino più che se un mobile fosse essenziale e razionalista; e così dicasi per i pomelli d’ottone dei cassetti che a volte sembrano mani, che però se fossero mani davvero farebbero schifo; «di chi sono?» ci si chiederebbe, che avere le mani di un morto in casa, fosse anche un prozio, forse farebbe molto fantasticare e nutrirebbe l’inconscio, ma prima di tutto se ci si mette su questa strada, un prozio sarebbe poco e basterebbe per un solo cassetto, e coi piedi ci si farebbero due piedi di un tavolo e per gli altri due si dovrebbe ricorrere alla prozia, che però in genere vive di più, e si dovrebbe aspettare, cosicché nel frattempo il tavolo sarebbe storto, a meno di non ricorrere a un altro parente, rompendo però quella simmetria tra la mobilia e la vita che, se il prozio e la prozia sono sempre vissuti insieme d’accordo, non si vede perché da morti non debbano continuare insieme a sostenere un tavolo, o a fornire le maniglie per due cassetti; se ce n’è un terzo è meglio pensare a una persona che sia stata loro cara o molto vicina, una cameriera, una badante, o una figlia rimasta sempre signorina in casa con loro, in modo da ricostituire il nucleo famigliare nelle maniglie di un mobile.

Jean Montenot, Libero seguito a “Caso irrisolto”, 2006

Eppure, e Ourednik lo sa meglio di chiunque altro, è proprio perché nessuna vita si lascia ricondurre a un destino, né esprimere da un racconto, che non si può far altro che moltiplicare i racconti che danno a ciascuno l'illusione che la propria vita abbia un senso, se non addirittura un senso elevato al rango di destino. Al di là della sua funzione utilitaria peraltro discutibile - posto che gli animali comunicano tra loro, con ogni sorta di mediazione, discretamente meglio degli uomini - la ragion d'essere ultima della parola umana consisterebbe non tanto nel dar senso all'esperienza vissuta, quanto nel dare a ciascuno di che mascherare la propria impotenza nel dar senso alla sua vita - in altri termini l'impossibilità di concludere in modo soddisfacente l'insieme aperto e finito che è ogni esistenza umana.

Edoardo Albinati, Cuori fanatici, 2019

Fin da ragazzo, Nanni inclinava a essere mansueto nei confronti delle ragazze che lo attraevano. Sorrideva spesso, era pronto ad acconsentire ogni capriccio, arrossiva e si ritraeva al loro minimo segno di fastidio. Se Nanni smetteva di essere scontroso come al solito, se appariva mite e sottomesso, vuol dire che c’era nei paraggi una ragazza che lo interessava. Lo interessavano le ragazze strane, ispirate, le ragazze violente, esili, le ragazze con vistosi difetti, con pregi inaccessibili, quelle sempre di malumore, con gli occhi piccoli, le grandi mani, le idee confuse, i tacchi alti, le ragazze che lavoravano nei bar e nelle pizzerie. Non pensava mai a conquistarle. Le subiva, si illanguidiva, piegandosi sotto i loro sguardi come un animale da soma, rideva quando ridevano loro, quando ridevano di lui, diceva qualunque cosa pur di rallegrarne il malumore, oppure taceva pieno di timore reverenziale, gli batteva il cuore a mille, distoglieva gli occhi, era intenerito, disossato - fino al momento in cui, così come vi era caduto dentro, usciva dal raggio d’azione del loro fascino e allora le dimenticava di colpo, tornando serio e brusco come prima.

Octavio Paz, discorso per il premio Nobel, 8 dicembre 1990

Nella mia peregrinazione in cerca della modernità mi sono perso e mi sono ritrovato molte volte. Sono tornato alla mia origine e ho scoperto che la modernità non è fuori ma dentro di noi. È oggi e l'antichità più antica, è domani e l'inizio del mondo, ha mille anni ed è appena nata. Parla in nahuatl, traccia ideogrammi cinesi del IX secolo e appare sullo schermo della televisione. Presente intatto, appena dissotterrato, che si scuote la polvere dei secoli, sorride e, all'improvviso, si mette a volare e scompare dalla finestra. Simultaneità di tempi e di presenze: la modernità rompe con il passato immediato solo per riscattare il passato millenario e convertire una statuetta della fertilità del neolitico in nostra contemporanea. Inseguiamo la modernità nelle sue incessanti metamorfosi e non riusciamo mai ad afferrarla. Sfugge sempre: ogni incontro è una fuga. La abbracciamo e in quell'attimo essa si dissolve: era solo un poco d'aria. È l'istante, quell'uccello che è dovunque e in nessun luogo. Vogliamo catturarlo vivo ma lui apre le ali e scompare, trasformato in un pugno di sillabe. Restiamo a mani vuote. Allora le porte della percezione si schiudono e appare l'altro tempo, il vero, quello che cercavamo senza saperlo: il presente, la presenza.

Peter Brook, Cahier Beckett, 1976

Beckett indispettisce sempre la gente con la sua onestà. Egli costruisce degli oggetti. Li pone davanti a noi. Ciò che ci mostra è spaventoso, ma proprio in quanto spaventoso, è contemporaneamente buffo. Ci dimostra quindi che non vi è modo di tirarsene fuori, e naturalmente questo fatto ci esaspera. Effettivamente non vi è modo di tirarsene fuori. La gente va ancora a teatro con la pia illusione che alla fine delle due ore di spettacolo il drammaturgo le offrirà una soluzione. Ora, sappiamo bene che la soluzione che ci darebbe Beckett non l'accetteremmo mai, eppure, per una incomprensibile illogicità, continuiamo ad aspettarcela.

David Foster Wallace, Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, 1984

Così ho detto: - Scusa, lo sapevi che hai la dolcevita al rovescio? - E la persona, che era May, si è girata e ha detto: - Sì, lo sapevo -. Quando si è girata non ho potuto fare a meno di notare che purtroppo era molto carina. Non mi ero accorto che era una ragazza carina, altrimenti è quasi sicuro che avrei fatto scena muta. Ho sempre cercato di evitare di parlare con le ragazze carine, perché le ragazze carine hanno un effetto deleterio su di me nel senso che ogni parte del mio cervello si chiude fuorché la parte che dice cose di una stupidità incredibile e la parte consapevole che dico cose di una stupidità incredibile. Ma a quel punto ero ancora troppo stanco e a pezzi per preoccuparmi più di tanto, e mi stavo preparando a lasciare la Terra, così ho detto quello che pensavo, anche se May era carina in modo allarmante. Ho detto: - Perché la porti al rovescio? - riferendomi alla maglia. E May ha detto: - Perché non mi piace che l'etichetta mi graffi il collo -. Io, comprensibilmente, ho detto: - No, dico, perché non tagli l'etichetta? -. Al che ricordo che May ha risposto: - Perché non riconoscerei il davanti della maglia. - Eh? - ho detto, facendo lo spiritoso. May ha detto: - Non ha tasche, scritte né altro. Il davanti è uguale e identico al didietro. Con la differenza che il didietro ha l'etichetta. Perciò non li distinguerei -. Così ho detto: - No, dico, se il davanti è uguale e identico al didietro, che differenza fa da che parte la indossi? - A quel punto May mi ha guardato serissima per una cosa come undici anni, quindi ha detto: - Per me fa differenza -. Poi ha sfoderato un grosso sorriso di una bellezza mortale e mi ha chiesto con estremo tatto come mi fossi fatto quella cicatrice. Io le ho detto che avevo una fastidiosa etichetta che mi spuntava dalla guancia...

Marco Santambrogio, “la Rivista dei Libri”, settembre 1994

Il meccanismo è semplice: si stabilisce senza argomentare di far cominciare qualcosa da un certo momento e si osserva che proprio allora due fenomeni si trovavano in qualche modo congiunti: questa compresenza nella fase inaugurale è sufficiente a istituire tra quei due fenomeni un legame saldissimo, addirittura logicamente necessario o a priori (questi due concetti, pur molto diversi tra loro, vengono spesso scambiati). Si decreta infine che tutta la storia successiva si limiterà a sviluppare in innumerevoli variazioni quei legami. Il fatto che la scelta degli inizi sia in larga misura arbitraria e che la compresenza dei fenomeni possa essere del tutto contingente - tutto questo evidentemente ha poca importanza.

Lucia Berlin, Aspetta un attimo, 1999

Tanti, tanti altri se ne sono andati. Un tempo mi faceva ridere sentire frasi tipo: «Ho perso mio marito». Ma la sensazione è proprio quella. Che la gente scompaia. Paul, la zia Chata, Buddy. Capisco come si possa credere nei fantasmi, o fare sedute per evocare i morti. Passo anche mesi interi senza pensare ad altro se non ai vivi, poi ecco Buddy che arriva con una battuta, oppure tu, vivida, evocata da un tango o da un'agua de sandia. Se solo potessi dirmi qualcosa. Sei peggio del mio gatto sordo.
L'ultima volta che sei venuta è stato qualche giorno dopo la tormenta. Il terreno era ancora coperto di ghiaccio e neve, ma poi era arrivata una giornata calda, un colpo di fortuna. Gli scoiattoli e le gazze schiamazzavano, i passeri e i fringuelli cinguettavano sugli alberi spogli. Ho aperto tutte le porte e le tende. Bevevo il mio tè seduta al tavolo della cucina con il calore del sole sulla schiena. Le vespe sono uscite dal nido sul porticato, sono entrate in casa mia, ronzando sonnolente intorno alla cucina. Proprio in quell'istante si è scaricata la batteria dell'allarme antincendio, che ha cominciato a frinire come un grillo in estate. Il sole sfiorava la teiera, il barattolo della farina, la scatola argentea dei dadi.
Una luce pigra, come un pomeriggio messicano nella tua stanza. Vedevo il sole sul tuo viso.

Jean Starobinski, “Liber”, febbraio-marzo 1990

Nulla obbligava il comparativismo linguistico a ricorrere a coppie di concetti antinomici. Il metodo linguistico è differenziale e contrastivo. Le differenze non sono antitesi. Ma la logica verbale delle antinomie possiede il fascino della simmetria: si impone dappertutto dove prevalgono le condanne preconcette, l'insufficienza della documentazione e il desiderio di fare impressione. La logica dei contrari, l'argomento a contrario, continuano a riscuotere successo: obbligano a tagliar corto, mentre la constatazione delle differenze non comporta alcuna decisione che vada al di là di questa stessa constatazione.

María Zambrano, “Sur”, novembre-dicembre 1969

Ci dev'essere stato un momento, all'inizio, in cui il sentire e il comprendere non dovettero sussistere separati: quel momento iniziale del conoscere che è abbastanza indifferente situare in un tempo determinato, in un “illo tempore” più o meno preciso, visto che ogni inizio è nello stesso tempo una meta: è, là dove si presenta in tutta la sua attiva purezza, il luogo della “conoscenza che si cerca”.
Non è possibile che all'inizio della conoscenza il capire e il sentire vivessero separati; e il fatto di contrapporli giocando sulla separazione determinatasi in seguito misura la distanza che separa chi così si conduce da questa conoscenza di cui si è in cerca - e che sussiste a partire da un certo inizio. Unirli, riunirli, richiede ormai un certo sapere e una certa arte, basati sulla fiducia nella non irrazionalità del sentire e assistiti dalla docilità dell'intelligenza: quella docilità che la riscatta insieme al suo orgoglio e alla sua soggezione, strettamente imparentati dalla loro comune cecità.

Marco Lodoli, Diario di un millennio che fugge, 1986

Già da ragazzino, nel cortile della scuola, mi capitava di accorgermi all'improvviso che l'avversario con cui stavo litigando, con cui mi accapigliavo, non aveva meno ragioni di me, che anzi avevamo i medesimi torti e negli occhi la medesima paura, e allora con un passo mi tiravo fuori dalla zuffa, non avevo più voglia di difendere nulla, e dicevo facciamo testa o croce, o come vuoi tu, e piantiamola. Per questo sostenevano che ero un vigliacco, e non era falso. E non era vero.

Dylan Thomas, Ricordi di Natale, 1945

Tutti i Natali si somigliavano talmente in quegli anni ormai dietro l’angolo della città di mare e senza più suoni tranne il lontano parlottare delle voci che sento a volte per un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordare se nevicò sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se nevicò dodici giorni e dodici notti quando avevo sei anni.

Agnes Heller, Biopolitica e libertà, 2003

Che cosa è dunque naturale? Lo sono le epidemie o le carestie? Più precisamente si può domandare: essere naturale significa trovarsi in uno stato o possedere un funzionamento indipendenti dalla volontà o dalle azioni umane? Così precisata la domanda, quasi nulla può dirsi naturale eccetto la giungla e forse il deserto vergine. Ma si può anche definire naturale ogni relazione tra cause ed effetti che si sviluppano nella natura organica e inorganica (anche se questa è di per sé una tautologia). Se è così, tutto quanto può dirsi naturale: persino la clonazione, i reattori nucleari e le epidemie, così come l'arrestarsi del contagio in seguito a vaccinazioni o ad altri interventi. Se le cose stanno così, la domanda riguardante ciò che è naturale e ciò che non lo è risulta semplicemente priva di senso: o meglio, è questione di scelta.

Arnaldo Benini, La coscienza imperfetta, 2012

La rarefazione delle sinapsi si annuncia con la diminuzione della memoria e prosegue con l'indebolimento di altre funzioni mentali. Non si tratta di una malattia in senso stretto, ma dell'invecchiamento del cervello, che, per la diversa traccia genetica della velocità di regressione di sinapsi e di neuroni e per le circostanze della vita, varia da persona a persona. Un modesto calo della memoria, l'indebolimento della capacità di imparare cose nuove e di concentrarsi a lungo non sono segni di demenza, ma di un modesto disturbo cognitivo. Di demenza si parla quando la perdita delle capacità cognitive e intellettuali rende le persone diverse da com'erano prima. Se il danno cognitivo è avanzato, si parla di demenza senile primaria che, nelle forme estreme, non si distingue dalla malattia d'Alzheimer. I disturbi sorgono e si aggravano in maniera spesso subdola, alla lunga di anni. Ne sono colpiti anche cervelli formidabili, come quello d'Immanuel Kant, il cui declino iniziò con la diminuzione della memoria e con la perdita della cognizione del tempo, e proseguì fino all'incapacità di riconoscere persone familiari e alla ripetizione ossessiva di movimenti senza senso. L'invecchiamento è inarrestabile. Quasi tutti coloro che dovessero raggiungere, come oggi si profetizza con giubilo, i 120-130 anni sarebbero dementi, e spesso anche ciechi e sordi.

Jennifer Egan, The Candy House, 2022

Non c'è niente di originale nel comportamento umano. Qualsiasi idea io abbia sta probabilmente passando per la mente di altre decine di individui che rientrano nelle mie stesse categorie demografiche. Viviamo in modi simili, abbiamo pensieri simili. Ciò che gli elusori vorrebbero restaurare, ho idea, è quel senso di unicità che provavano prima che conteggi come i nostri dimostrassero loro quant'erano paurosamente simili a tutti gli altri. Il punto su cui gli elusori si sbagliano è che la quantificabilità non rende la vita umana meno degna di essere vissuta e neanche (questa è un'idea controintuitiva, lo so) meno misteriosa... così come identificare lo schema della rima in una poesia non priva quest'ultima del suo valore. Al contrario!

Julio Cortázar, Rayuela, 1962

Il guaio era che a forza di temere l'eccessiva localizzazione dei punti di vista, aveva finito per pesare e perfino per accettare troppo il sì e il no di tutto, a guardare i piatti della bilancia tenendosi sull'ago. A Parigi, tutto era per lui Buenos Aires, e viceversa; all'apice dell'amore pativa e accettava la perdita e l'oblio. Attitudine perniciosamente comoda e addirittura facile, per poco che si trasformi in un riflesso e in una tecnica; la lucidità terribile del paralitico, la cecità dell'atleta perfettamente idiota. Si comincia a muoversi nella vita con il passo lemme lemme del filosofo o del clochard, riducendo sempre più i gesti vitali al mero istinto di conservazione, all'esercizio di una coscienza più attenta a non lasciarsi ingannare che ad afferrare la verità. Quietismo laico, atarassia moderata, attenta disattenzione.

Michel Serres, Il mancino zoppo, 2015

Gli psicologi di ogni scuola descrivono la costruzione dell'identità personale attraverso le relazioni parentali. Certo. La vita esclusiva in città sterili, e alcune conoscenze limitate alle scienze umane e sociali, forse li hanno trascinati verso questa strana e gretta limitazione. La Garonna, i suoi vortici, le piene e le alose, le sabbie e i pioppi mi hanno creato almeno quanto mia madre; le allodole, le siepi, i raccolti e i pruni quanto mio padre, agricoltore e marinaio; ma anche l'estatica felicità che, qualche tempo dopo, mi fu offerta dall'alto mare, dall'alta montagna, dal deserto orizzontale, frammenti di pianeta senza uomini, contribuì al mio sviluppo, tanto più che, nello stesso tempo, imparavo le scienze e capivo in mezzo a chi e da quando vivevo, o quale flusso del mondo mi avesse messo al mondo.

Rosa Pierno, Corporea Mente, 2012

Se mediante opera di asservimento e di disciplinamento venisse meno il disordine delle passioni, tosto dovresti ripristinarlo per non restare separato dal tuo concreto mondo. Amore è effetto incagliato, intinto in torbida conoscenza, e a nulla servirà rinfrancare l'immaginazione con l'essenza di un incrollabile legame. Considerando che eccitazione non è che guasta comprensione, converrà indirizzarla verso l'affetto, ma non per questo sarà ripristinato il favoloso delirio dei primi giorni, dei primi sconvolgenti incontri. Ammettendo che innamoramento non sia che distorsione o sviamento, mai vorrei ritrovarmi un giorno sulla retta via. Solo pura contraddizione ci consente di restare in relazione. La contraddizione si trova dalla parte della non risoluzione, detto a quanti vorrebbero che ogni questione fosse risolta in modo lineare, spiegata in tutti i suoi meandri, come se possibile fosse che dall'oggi al domani ci dichiarassimo, con convinte ragioni, che non più t'amo, che tu m'ami.

Jon Fosse, L'altro nome, 2019

e c'è silenzio e anch'io mi tolgo la borsa a tracolla e l'appoggio sulla sedia vicino a me e lascio vagare lo sguardo sugli altri uomini presenti nel Pub, seduti ognuno con la propria birra e la propria sigaretta come se fossero il loro fragile scudo di protezione dal mondo, si aggrappano alla sigaretta, alla birra, e dentro di loro il mare è grande, in tempesta o calmo, mentre aspettano che abbia inizio la prossima e ultima traversata, quella che non avrà mai fine, quella da cui non torneranno più e non hanno paura, andrà come andrà e deve essere, perché in questo c'è un significato, sì, Nostro Signore deve sicuramente avergli dato un senso, pensano, perché Lui scrive dritto dove le righe sono storte, pensano, o almeno il buon Dio è presente da qualche parte, ed è il diavolo a storpiare le righe, pensano, e si aggrappano alle loro sigarette e alla birra e poi pregano una preghiera silenziosa, una preghiera che assomiglia di più a una rapida occhiata rivolta verso il mare che c'è dentro di loro, senza parole, ma la preghiera si estende fino dove l'occhio arriva scrutando il mare, ed è completamente priva di parole, perché le parole rimangono, certo, ma deve esistere un porto anche per gente come loro, pensano di sicuro, e poi avvertono un accenno di paura e allora sollevano il bicchiere e il sapore della birra, quel gusto vecchio e caro, infonde loro sicurezza, penso e vedo che Asle alza la birra e ne beve un sorso

Rachel Cusk, Kudos, 2018

Raccontava tutto ciò con un riserbo impacciato e lieve dal quale s'intuiva che parlava più per intrattenere che per suscitare sconcerto. Un sorriso di disapprovazione gli aleggiava intorno alla bocca, mettendo in mostra una fila di denti candidi e robusti. Parlando si era animato, e la disperata scompostezza di prima si era attenuata nella maschera brillante del narratore. Avevo l'impressione che fossero storie che aveva già raccontato e che amava raccontare, come se avesse scoperto il potere e il piacere di rivivere i fatti avendoli privati del loro pungiglione. L'abilità, lo vedevo, stava nel mantenerti accosto a quella che presumibilmente era la verità senza consentire ai tuoi reali sentimenti di riprendere il sopravvento.

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, 2001

Si può vedere come si muovono, in ogni caso, probabilmente il movimento è un prolungamento del corpo. Da una parte è questione di agilità e di elasticità. Forse dipenderà anche dall'ora, la mattina il passo è più leggero, però sembrano scivolare scappare da tutte le parti. Un corpo agile però sarà anche un corpo migliore, abituato a muoversi. E allora perché il movimento non dovrebbe essere proprio l'involucro del corpo, una specie di luminosità che rivela i muscoli e le spalle e la qualità della pelle e i tendini delle gambe. Se si mangiassero i corpi della gente, bisognerebbe mangiarli finché sono così, come le nuvole. Arrivata una certa età, si prende il corpo, gli si dà una riaggiustata, per bene, per bene, lo si mette nell'armadio con tutto quello che potrebbe servire a non farlo marcire subito, lo si lascia lì: da quel giorno in poi si porterà in giro solo il vestito.

Simone Salomoni, operaprima, 2023

Guardo Simone ed Elena bere, ballare e ridere, si divertono, sono a loro agio e si vede; Elena è appariscente, elegante, ma non possiede la bellezza, nessuna grazia, non parlo di carisma, ma di bellezza, pura bellezza; Simone non ha carisma, troppo giovane, però possiede una grazia naturale che proviene dall'andatura del suo corpo, dal suo modo di muoversi tra le persone, da come occupa lo spazio, la sua peculiarità estetica. Elena no, non ha peculiarità, è una ragazza come tante, bella come tante, vestita come tutte nel locale, la borsa firmata, un vestito da serata, rosso e lungo fino al ginocchio, scollatissimo, non porta il reggiseno e quando salta le si vedono le areole; ha due belle scarpette, vernice e tacchi a spillo, che fanno pendant con il vestito, con le labbra e con le unghie; è magra, a dispetto dell'enorme seno, è magra come un cacciavite e attira sguardi ed erezioni.

Jean Paul, Vita di Maria Wuz, 1793

Io conosco tanto il primo quaderno del re di Prussia quanto quello del maestro Wuz, e poiché li ho avuti fra mano tutti e due, posso giudicare che il re scriveva peggio da uomo e il maestrino da bimbo. «Mamma, - disse a sua moglie - guarda un po' come tuo marito ha scritto qui (nel quaderno) e lì (nel capolavoro calligrafico di una lettera d'investitura, che egli aveva inchiodato alla parete): ne sono ancora estasiato, mamma!» Egli non si vantava con nessuno, fuor che con sua moglie; e io stimo, quanto vale il privilegio del matrimonio, che il marito, per mezzo di esso, acquista un secondo io, davanti a cui senza esitazione può lodarsi proprio cordialmente. In verità il pubblico tedesco dovrebbe essere un tale secondo io per noi autori!

Emanuele Trevi, Due vite, 2020

Alla fine, gli venne diagnosticata una personalità bipolare. Anche a essere del tutto digiuni di conoscenze psichiatriche, la parola suona adeguata. Le montagne russe del suo umore prevedevano tuffi vertiginosi in basso e risalite altrettanto ripide, che si alternavano con grande rapidità. Rimango convinto che queste definizioni scientifiche possiedono un valore che arriva fino al punto in cui l'individuo, proprio perché è un individuo, scarta di lato, e dopo, dietro quella curva, non c'è nome che lo possa più inseguire. «C'è sempre qualcosa di assente che mi tormenta» diceva Camille Claudel, l'allieva di Rodin, malata cronica di nervi. Quelque chose d'absent. Chiamiamolo così. Forse queste cose fanno parte della vita di ognuno, e c'è chi ci fa più caso, e chi meno. In una certa misura, se questo è vero, la felicità dovrebbe consistere in una sempre minore attenzione a se stessi. Altro che la cura di sé! Meno sai chi sei e cosa vuoi, meglio stai.

Ludwig Wittgenstein, annotazione, 1937

Il modo di risolvere il problema che vedi nella vita è quello di vivere in modo da fare scomparire ciò che è problematico. Il fatto che la tua vita sia problematica mostra che la forma della tua vita non s’adatta allo stampo della vita. Così devi cambiare il modo in cui vivi e una volta che la tua vita s’adatta allo stampo, allora ciò che è problematico scompare.
Ma non abbiamo un po’ la sensazione che chi non vede problemi nella vita sia cieco davanti a qualcosa d’importante, se non addirittura alla cosa più importante di tutte? Non mi sento un po’ come chi dice che un uomo come questo vive senza scopo - ciecamente, come una talpa, e che se solo sapesse vedere vedrebbe il problema?
O piuttosto dovrei dire: uno che vive rettamente non vivrà il problema come una pena; così per lui ci sarà un’aureola luminosa intorno alla sua vita, non un oscuro retroscena.

Marta Cai, Brasilampi, 2023

La gallina è felice e grassa solo quando è chioccia. Allora, chioccia si china, osserva, accompagna. Vive divertita, ha gioia, beve goccine di felicità. Veste un abbigliamento semplice, morbido. Insegna, raspa, estrae lombrichi come stelle filanti. Non è alimentazione, è festa. È circondata da saltelli e lei è commossa, è la pace in terra alle galline di buona volontà. Quando non è chioccia, la gallina sa. La gallina è definita dal suo sapere che può fare un uovo. Ecco che la gallina ha risolto la questione se è nato prima l'uovo o la gallina. È nata prima la possibilità consapevole dell'uovo. Finché la gallina sa che potrebbe - se ha tempo - fare un uovo, è salva.

Yasmina Reza, Babilonia, 2016

Alla fine della conversazione mi dico, sei veramente una persona attenta, ti preoccupi per gli altri. Passano due secondi e penso, che squallore questo autocompiacimento per un'azione così elementare. E subito dopo, brava, ti tieni d'occhio, complimenti. C'è sempre un grande adulatore che ha l'ultima parola. Quand'era piccolo Denner usciva dal confessionale e si fermava sul sagrato di Saint-Joseph des Épinettes, inspirava l'aria a pieni polmoni e si diceva, adesso sono un santo. E subito dopo, scendendo i gradini, cavolo, ho peccato di orgoglio. Per un verso o per l'altro, la virtù non regge. Può esistere solo a nostra insaputa.

Guido Morselli, Uomini e amori, 1948

Era uno di quegli uomini che vanno radicalmente esenti dal fatale conflitto fra la carne e l'anima. C'era in lui, da questo lato, accordo pacifico e perfetto. Ogni funzione, ogni volizione gli pareva necessariamente estesa a tutto quanto il suo individuo senza distinzione possibile, ed era questo per lui un fatto troppo naturale perché valesse la pena di compiacersene. «Io dipingo con le mani e con la testa ma anche con lo stomaco» aveva detto una volta al suo amico Saverio: in compenso, il piacere che prendeva da una donna, era qualcosa che non interessava mai unicamente le sue papille e terminazioni nervose, qualcosa a cui la sua intelligenza era consenziente e felicemente partecipe. l'immagine di uno spirito estraneo e ripugnante al piacere dei sensi era un'assurdità, per Cambria, sebbene, sostenuta dal consenso universale, andasse accettata senza discussione: un dogma, venerando quanto misterioso. Da Saverio Maggio, tale sua caratteristica non era stata giudicata un pregio, né una fortuna; ma è un fatto che si danno anche individui di questa specie, benché forse non numerosi. Se ce ne fosse molti, la morale quasi per intero, e almeno due terzi della letteratura non avrebbero più ragion d'essere.

Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970

Non ne potevo più di quella donnetta che, contrastando con l'indifferenza di tutti, mi si era appiccicata addosso, con il suo accompagnatore-nemico, l'ometto sempre dietro le nostre spalle che ghignava. Non cessava mai di parlare; non mi lasciava mai la mano; con la sua, molto piccola, rinforzava i discorsi grattandomi sul palmo. Provavo un forte fastidio di quel solletico, ma non riuscivo a farla smettere. Se poi allungavo il passo lo allungava anche lei sulle gambette corte a costo di trotterellare, senza nemmeno lamentarsi né smettere di grattarmi. Senza guardarla, la vedevo con la coda dell'occhio; magretta, ossuta, energica, prepotente, con gli occhi da fissata. Mi faceva pensare alle donnette missionarie in favore della religione o delle opere di carità, o sostenitrici fanatiche di qualche causa o accusatrici o agitatrici o incitatrici delle rivoluzioni, queste zanzare in veste umana, ancora peggiori dei loro equivalenti maschi. Qualunque cosa ne avessi pensato vivendo, ne provavo adesso disgusto. La sua vocetta di zanzara, che mi dava del tu, nei suoi sproloqui che cercavo di non ascoltare, ma di cui mi arrivava mio malgrado qualche frammento, continuava a ripetere le frasi del suo campionario. Per esempio: ‘Bisogna avere fede’, ‘So perché sei triste, è perché la tua fede non è ancora completa, e senza fede l'uomo soffre’, ‘La tristezza e il dubbio sono i nostri nemici’, ‘Ma io ti sarò vicina e i tuoi occhi vedranno’, ‘Il meglio sta davanti a noi’, ‘Scorda il passato e pensa soltanto al futuro’. Di queste frasi, nelle mie condizioni, non riuscivo nemmeno a capire il senso e lo scopo, e mi comunicavano soltanto una specie di nausea come se fossi oggetto d'intenzioni oscene. Intanto l'ometto, da dietro, con una vocetta, anche lui, non di zanzara ma di topo, interloquiva con i soliti: ‘Campa, cavallo’, ‘Il, ih’, ‘C'è da essere allegri’, ‘Te ne accorgerai, scemo’, ‘Camminerai un bel pezzo’, ‘Se non sarai sparito prima’. Questo durò per tutta la prima giornata. Quando finalmente sedetti per trascorrere quella che, nel gergo di qui, chiameremmo la notte, approfittai di un attimo in cui la donnetta stava tastando con le mani il suo pezzo di terra per essere sicura che fosse ben asciutto; scappai in un altro gruppo di là del rialzo e non la vidi più. Mi accorsi però in seguito che dovunque andavo si trovava sempre un qualcuno, e ce n'erano di tutti i generi, donne, uomini, vecchi, giovani e perfino bambini, che facevano la stessa parte d'incitatori a credere nel futuro, senza che, per quanto sapevo, nessuno li avesse mandati; spesso, non sempre, si portavano dietro un parassita oppositore, che invece ghignava e scherniva. I morti missionari andavano da un gruppo all'altro, si attaccavano a chi potevano; io non li potevo soffrire ed ero anche sgarbato per levarli di torno dalle prime parole. Per quanto indebolito di mente, non mi abbassai a prestarmi come teatro di una lotta tra il bene e il male recitata da quegli esseri disgustosi.

Elif Shafak, Tre figlie di Eva, 2016

Perché mai alle radici si dovesse dare tanto più valore che ai rami e alle foglie, Peri non lo aveva mai capito. Gli alberi gettavano virgulti e filamenti in ogni dove, sotto e sopra gli antichi suoli terrestri. Se perfino le radici si rifiutavano di star ferme dove stavano, perché pretendere l'impossibile dagli esseri umani?

Émile Zola, Teresa Raquin, prefazione alla seconda edizione, 1868

È necessaria tutta la preconcetta cecità di una certa critica per obbligare un romanziere a scrivere una prefazione. Poiché per amore di chiarezza ho commesso l'errore di scriverne una, chiedo scusa alle persone intelligenti, che non hanno bisogno, per veder chiaro, che gli si accenda una lanterna in pieno giorno.

Cixin Liu, nota, 28 dicembre 2012

L'ingenuità e la gentilezza con cui l'umanità guarda l'universo rivela una strana contraddizione: sulla Terra, gli uomini possono sbarcare su un altro continente e, senza pensarci due volte, distruggere civiltà affini con guerre ed epidemie. Guardando le stelle, invece, diventano sentimentali, si convincono che, se gli extraterrestri esistono, vivono all'insegna di nobili principi morali, e che curare e amare altre forme di vita fa parte di un indubitabile codice di condotta universale.
Io ritengo che debba essere esattamente il contrario: dovremmo rivolgere la bontà che mostriamo nei confronti delle stelle ai nostri simili sulla Terra e costruire quei legami di fiducia e comprensione con i diversi popoli e civiltà che compongono l'umanità. Ma per quanto riguarda l'universo fuori dal sistema solare, dovremmo sempre stare in guardia ed essere pronti ad attribuire le intenzioni peggiori a quegli Altri che potrebbero esistere nel cosmo. Per una forma di vita fragile come la nostra, questo è senza dubbio l'atteggiamento più responsabile.

David Grossman, Vedi alla voce: amore, 1986

Atomi di verità indivisibile. Verità cristallina e ultima. E Bruno la cercava dappertutto: nella gente che incontrava, nei frammenti di discorsi portati dal vento fino ai suoi orecchi, nelle combinazioni fortuite, in se stesso; in ogni libro che leggeva provava a cercare la frase unica, perlacea, che aveva mosso lo scrittore a intraprendere quel suo viaggio di centinaia di pagine. Il morso di quella verità nella sua carne. Nella maggior parte dei libri quella frase non c'era affatto. Nei libri geniali se ne trovavano a volte due e anche tre. Bruno le copiava nel suo quaderno: gli era chiaro che in tal modo raccoglieva, con grandi sforzi e diligenza, i frammenti delle prove concrete, dai quali avrebbe potuto un giorno ricostruire il mosaico primo. La verità. E quando tornava a leggere, a volte, quelle frasi, non sempre avrebbe potuto dire chi le aveva scritte; a volte gli pareva che una certa frase l'avesse creata lui stesso, e poi si accorgeva di aver sbagliato. Tanto si assomigliavano tutte, né c'è da meravigliarsene, si diceva: dalla medesima fonte sono sgorgate e venute qui tutte.

Mohammad Tolouei, “Dastan”, gennaio 2018

Per me la solitudine è come entrare in un’aula di tribunale dove non c’è nessun giudice e i banchi sono vuoti, una corte senza funzionari e dove non si può fare appello. Nessuno ti disturba, ma l’imponenza dell’edificio e le finestre alte fino al soffitto incutono timore. Non importa se sei lì per tua iniziativa o ti ci hanno costretto, trovarsi in quel luogo è di per sé inquietante. La solitudine apre la strada al giudizio mettendo a tua disposizione uno stuolo di superlativi. Non ho l’abitudine di dire che un film era bruttissimo, se non quando sono solo. Non confesso mai di essere rimasto affascinato da una persona, se non quando sono solo. La solitudine mi permette di evocare le parole nella loro forma più esuberante e robusta. Negli altri momenti c’è sempre qualcuno che ti ammonisce: vacci piano, correggi il tiro.

Geoff Dyer, Sabbie bianche, 2016

Anche in questo libro si mescolano fiction e non-fiction. In che cosa consiste la differenza? Be', la fiction ti consente di inventare o alterare i fatti. Mia moglie, per esempio, si chiama Rebecca, mentre in queste pagine la moglie del narratore si chiama Jessica. Tutto qua, in effetti.

Multatuli, Max Havelaar, 1860

Io non ho nulla contro i versi in sé e per sé. Se si vogliono disporre le parole per file, bene, ma non si dicano cose che non sono vere. «La notte è bruna, rintocca l’una». Questo può andare se veramente siamo in una notte bruna e se è l’una. Ma se per caso manca un quarto alle tre, io, che non dispongo le mie parole per file, posso dire: «La notte è bruna e manca un quarto alle tre». Invece il verseggiatore è vincolato dal bruna della prima riga alle ore una. Bisogna proprio che sia l’una, oppure la notte non può essere bruna. E così egli si trova alle strette: o cambiare il tempo, o cambiare l’ora. E una delle due cose sarà falsa.

Stella Poli, La gioia avvenire, 2023

La nuova compagna di mio padre è crudista. All'epoca non avevo idea di cosa fosse, il crudismo, non andava di moda. Quando mi spiegò, mi parve un carpiato all'indietro nell'evoluzione piuttosto immotivato.
Me la ricordo, la prima volta, che frullava dei datteri in un frullatore giallo, sulla penisola della cucina. Aveva una sciarpa arancione attorcigliata a fermarle i capelli, come una specie di turbante. Gli zigomi alti, gli occhi scuri.
Non li avevo mai nemmeno assaggiati, io, i datteri: li guardavo ogni tanto a Natale e mi parevano di una consistenza sospetta. Immaginavo sapessero di polveroso, lì, sotto quelle pellicoline coi cammelli disegnati.
Era strano vederla in quel perimetro, dove prima c'era mia madre, i suoi riccioli, le sue cose cotte. Era la penisola dove avevo preparato la mia prima, orrenda, pasta.
La soppesavo, lei sorrideva.
Ho provato, lo stesso, a piacerle. Ho assaggiato quella torta un po' gommosa, e molte altre torte poi.

Andrea Wulf, L'invenzione della natura, 2015

Alla fine del diciottesimo secolo alcuni scienziati avevano cominciato a ipotizzare che la terra fosse più antica della Bibbia, ma su come si fosse formata non si trovavano d’accordo. I cosiddetti “nettunisti” ritenevano che la forza determinante fosse stata l’acqua, che avrebbe creato le rocce attraverso un processo di sedimentazione e poi avrebbe lentamente determinato la nascita di montagne, minerali e formazioni geologiche emergenti da un oceano primordiale. Altri, i “vulcanisti”, sostenevano che tutto avesse avuto origine attraverso eventi catastrofici come ad esempio le eruzioni vulcaniche. Il pendolo continuava a oscillare tra queste due scuole di pensiero. Tra i problemi incontrati dagli scienziati europei vi era il fatto che le loro conoscenze erano quasi interamente limitate ai due soli vulcani attivi in Europa - l’Etna e il Vesuvio, entrambi in Italia.

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1928

Poiché l'essere umano è così fatto che il cuore, il corpo e il cervello stanno tutti insieme, e non rinchiusi in compartimenti isolati (come probabilmente si troveranno fra un milione di anni), il buon pranzo giova molto alla conversazione. Non si può pensare bene, né amare bene, né dormire bene, se non si è pranzato bene.

László Krasznahorkai, Sátántangó, 1985

Con gli articoli delle riviste il dottore non perdeva tempo, preferiva guardare le immagini, giusto per far qualcosa, come in questo caso. Solitamente osservava con gran piacere le fotografie che corredavano i servizi sulle guerre asiatiche, che ai suoi occhi non apparivano per niente lontane o esotiche; era convinto che quegli scatti fossero stati fatti in qualche parte lì vicino, a volte gli sembrava perfino di scorgervi qualche volto familiare; in questi casi li studiava a lungo e con molta concentrazione, cercando di identificare i proprietari dei tratti.

Maurizio Ferraris, intervista “Le parole e le cose”, 19 giugno 2017

Veniamo al mondo molto giovani in un mondo molto vecchio, diceva Eric Satie. Dunque, nasciamo pieni di bisogni e ci troviamo in un mondo estremamente strutturato. Su di noi incombono figure autoritarie (e se non incombono è ancora peggio): genitori, insegnanti. Poco alla volta, insieme al linguaggio e alle buone maniere a tavola, impariamo anche a rispondere a chi ci interpella, con quella struttura fondamentale di imputazione che è il nome proprio. È da questa struttura fondamentale, io credo, che derivano le nostre intenzioni, le nostre idee, e la nostra responsabilità in senso elevato, ossia il rispondere di, l’essere responsabili delle proprie azioni anche senza che nessuno ci obblighi a farlo e stia a osservarci con il fucile spianato. Ciò, ovviamente, non avviene di default, ma può avvenire, così come può avvenire che siamo in grado di agire liberamente. Ma si tratta del punto di arrivo, raro e accidentato, non del punto di partenza.

Stanisław Lem, La Voce del Padrone, 1968

La matematica, dal canto suo, rappresenta un distacco troppo drastico. È la rottura dei legami non solo locali; di limitazioni divenute modelli di cadute e virtù; è il risultato della ricerca di una libertà dispensata da ogni tangibile verifica. È l'attività di costruttori desiderosi che il mondo non possa mai e in nessun modo turbare la loro opera, per cui con la matematica non si può dire nulla del mondo: viene detta pura precisamente perché è depurata dei depositi materiali, e questa sua assoluta purezza è la sua immortalità. Proprio per questo, tuttavia, essa è arbitraria, giacché generatrice di quanti mondi si vuole, purché non contraddittori. Tra l'infinita moltitudine delle possibili matematiche ne abbiamo scelta una: l'ha deciso per noi la nostra storia, con le sue uniche e irreversibili peripezie.

Gertrude Stein, Autobiografia di tutti, 1937

Sono sempre più certa che la sola differenza tra gli uomini e gli animali è che gli uomini sanno contare e gli animali no e quando contano per lo più contano denaro, e una delle cose che davvero mi piaceva in Napoleone è che stabiliva sempre la spesa quotidiana di tutti i personaggi delle storie che stava leggendo.

Uwe Johnson, Jahrestage, vol. I, 1970

la memoria le è venuta in aiuto agli esami, nei test, negli interrogatori, la sorregge attraverso il lavoro quotidiano, e per un uomo vale come bell’elemento decorativo; a lei della memoria è sempre interessata la funzione del ricordare, non l’immagazzinare, il riprodurre, il ritornare nel passato, la ripetizione di ciò che è stato: rivivere di nuovo quei momenti, di nuovo essere in quei luoghi. Questo non è possibile.
Se la memoria potesse comprendere il passato nelle forme nelle quali noi incaselliamo la realtà! Ma il reticolo a più piani di tempo terrestre e causalità, logica e cronologia, che noi usiamo per pensare, non dipende dal cervello, dove noi ripensiamo ciò che è stato. (I concetti del pensiero non hanno corso nemmeno nel luogo dove esso si produce; col cervello dobbiamo camparci.) Il deposito della memoria non è proprio fatto per riprodurre. È appunto al richiamo di una connessione di eventi che si oppone. Un impulso, una congruenza anche solo parziale, una cosa che non c’incastra nulla, e vengono fuori sciorinati fatti, numeri, lingue straniere, gesti scorrelati; dagli in pasto un odore di pece, di marcio, eppur fresco, come portato dal vento, una nota di gusto nella rinomata insalata di pesce di Gustafsson, e pregalo di scovare un contenuto per il vuoto che un tempo fu realtà, sensazione viva, fatto accaduto; la tua preghiera resterà inesaudita. Il blocco lascerà trapelare lacerti, schegge, spezzoni, filacci che andranno a ricoprire a caso l’immagine depredata e priva del suo contesto, calpesteranno le tracce della scena che si voleva ricostruire, e così siamo ciechi a occhi aperti. Quel pezzo di passato che ci appartiene poiché c’eravamo rimane nascosto dentro a un segreto, impenetrabile alla formula di Alì Babà, inavvicinabile nel suo gesto di rifiuto, privo di parola e affascinante come un enorme gatto grigio dietro al vetro della finestra, visto da molto in basso come con occhi di bimba.

Vincent Message, Cora nella spirale, 2019

La cosa più toccante è pensare che per quanti lo hanno vissuto quel tempo era il presente, la sola epoca che avrebbero conosciuto in prima persona, e che doveva apparirgli incredibilmente moderna: erano l’avanguardia, ma d’altronde siamo tutti condannati a esserlo, e dovevano fronteggiare un avvenire popolato da fantasmi ancor più sfumati di quanto non lo siano loro ai nostri occhi, senza sapere cosa sarebbe venuto dopo, da dove sarebbero sbucate le mode, le espressioni, gli atteggiamenti e i punti di vista che li avrebbero resi antiquati. La cosa che più mi piaceva durante quei tre anni trascorsi a studiare storia tra le mura della Sorbona, prima di deviare verso il giornalismo, la cosa che più mi entusiasmava, anche se non sapevo ancora darle un nome, era proprio questo dialogo tra fantasmi che si osservano attraverso la coltre dei decenni. Più o meno sbiaditi, e presumibilmente desiderosi di vedersi restituita la vita dei colori, se ne stanno lì, immensa folla immobile e raccolta, costretta a galleggiare nella spirale del tempo in attesa di qualcuno che arrivi a ricomporne il profilo e a ravvivarne la voce, facendone il soggetto inconsapevole di quei tentativi di resurrezione che non funzionano mai fino in fondo. Se ne stanno lì e basta, immobili, muti.

Mario Benedetti, Chi di noi, 1953

Guardò distrattamente verso la porta e la ricordò di colpo, adesso sì, mentre percepiva l’immagine di quest’altra donna piena di paura e orgoglio, letteralmente avvolta in una pelliccia di lontra, che girava la testa per cercarlo. È l’unica, pensò. Pensò anche che solo un cretino poteva formulare un pensiero del genere.

Lucia Berlin, Randagi, 1990

La luna. Non esiste luna come quella di una notte limpida nel New Mexico. Si alza sopra le Sandias e accarezza chilometri e chilometri di arido deserto con tutta la silenziosa bianchezza di una prima nevicata. Il chiaro di luna negli occhi gialli di Liza e l'albero dei rosari.
Il mondo continua ad andare avanti. Alla fine non c'è molto altro che conti. Che conti davvero, voglio dire. Ma poi qualche volta ti capita, per un secondo, di essere toccato da questa grazia, dalla certezza che invece ci sia qualcosa che conta, che conta davvero.
Anche Bobby provava la mia stessa sensazione. Tratteneva il respiro. Qualcuno avrebbe recitato una preghiera, in un momento come quello, si sarebbe messo in ginocchio. Avrebbe cantato un inno religioso. Forse gli uomini delle caverne avrebbero fatto una danza. Noi facemmo l'amore. El Sapo ci sorprese. Avevamo finito, ma eravamo ancora nudi.

Thomas Nagel, La spietatezza nella vita pubblica, 1978

Tra le altre cose, una raffigurazione del genere trascura il fatto che l’esercizio di un potere, in qualsiasi ruolo, è una delle forme più personali di autoespressione individuale, e una ricca fonte di piacere personale. Il piacere del potere non è facilmente riconosciuto, ma è uno dei sentimenti umani più elementari - probabilmente un sentimento che ha radici infantili. Quelli che hanno avuto il potere per anni talvolta si rendono conto della sua importanza solo quando devono andarsene. A dispetto del loro comportamento solenne, della loro dizione impersonale, e della sobria espressione fisica, i detentori del potere pubblico sono personalmente coinvolti in misura intensa e probabilmente ne godono immensamente. Ma che sia coscientemente goduto o meno, l’esercizio del potere è una forma fondamentale di espressione individuale, non diminuita ma accresciuta dalle istituzioni e incarichi da cui deriva.

Albert Camus, L'uomo in rivolta, 1951

Il primo gesto del paesaggista è quello d’inquadrare la tela. Egli elimina nell’atto stesso di eleggere. Ugualmente, la pittura a soggetto isola nel tempo e nello spazio l’azione che normalmente si sperde in un’altra azione. Il pittore procede allora a una fissazione. I grandi creatori sono coloro che, come Piero della Francesca, danno l’impressione che in quel momento appena si sia operata la fissazione, e la macchina di proiezione fermata di scatto. Tutti i loro personaggi danno allora l’impressione di continuare, per miracolo d’arte, ad essere vivi, cessando tuttavia d’essere perituri.

Elisabetta Pierini, La casa capovolta, 2021

Sua madre non provava affetto per lei. Anzi, era gelosa di lei come una gazza. Ogni filo d’oro che vedeva brillare, cercava di strapparglielo via con le unghie. Eva ormai se ne era fatta una ragione. Certe cose non hanno una causa e una fine, sono così e basta: il sole sorge e di notte c’è la luna. Ogni giorno, ogni santo giorno.

Tommaso Pincio, post, 21 marzo 2023

C’è qualcosa di imbarazzante in tutte le età, per questo ero d’accordo. Io, per esempio, ho cominciato a sentirmi in imbarazzo per la mia età fin da quando ho compiuto trent’anni, forse anche prima. È un disagio profondo che riguarda tanto la fatica a riconoscersi quanto quel che abbiamo o non abbiamo raggiunto a quella certa età, quel che ci aspettavamo da noi stessi o che pensiamo gli altri si aspettino ora da noi. A ogni modo sì, l’età è spesso imbarazzante, ho pensato.

Jim Thompson, L'assassino che è in me, 1952

Non hai un momento di tempo, ma ti sembra di avere l’eternità. Non hai niente da fare ma ti sembra di avere tutto.
Fai il caffè e fumi qualche sigaretta; e le lancette dell’orologio sono impazzite. Quasi non si sono mosse, quasi non si sono spostate da dove le avevi viste l’ultima volta, ma hanno segnato metà? due terzi? della tua vita. Hai l’eternità, ma non è neppure un momento.
Hai l’eternità; e per qualche ragione, non puoi farci un granché. Hai l’eternità; ed è larga un miglio, profonda due dita e piena di coccodrilli.

David Foster Wallace, Caro vecchio neon, 2004

C'era un paradosso logico di fondo che io chiamavo il «paradosso dell'impostura» e che avevo scoperto praticamente da solo mentre seguivo un corso di logica matematica a scuola. [...] Il paradosso dell'impostura era che più tempo e più impegno mettevi nel cercare di far colpo sugli altri o di affascinarli, meno sorprendente o affascinante ti sentivi dentro: eri un impostore. E più ti sentivi un impostore, più ti sforzavi di offrire un'immagine sorprendente o piacevole di te stesso per evitare che gli altri scoprissero che razza di persona vuota e disonesta eri per davvero. Verrebbe logico pensare che non appena un diciannovenne all'apparenza intelligente si fosse reso conto del paradosso, avrebbe smesso di essere un impostore per limitarsi a essere se stesso (qualunque cosa fosse) perché aveva capito che essere un impostore significava regredire perversamente all'infinito col risultato di trovarsi spaventati, soli, alienati ecc. Ma ecco spuntare un altro paradosso di ordine superiore, che non aveva né una forma né un nome: io non l'ho fatto, non potevo farlo.

Lawrence Osborne, Il regno di vetro, 2020

Ma dietro l'apparenza spaurita Sarah non era meno ostile. Attendeva soltanto di vedere come si comportava Ximena. Bevvero insieme, lugubri, e Sarah la osservò per vedere se aveva ragione a essere diffidente: c'era qualcosa che Ximena non le diceva; recitava la parte dell'innocente in un modo che Sarah riconobbe fin troppo bene. Lo faceva anche lei, dopotutto. Fu un gioco tra gatto e topo, come sempre fra gli esseri umani, e spesso il gatto diventa topo, e viceversa. E lei era diventata il topo del ricattatore e questo la riempiva di rabbia perché era stata usata e ingannata. Nemmeno la grande April Laverty era riuscita a usarla. Ma la ruota girava e l'aveva abbindolata il primo venuto. Per questo la ossessionava il desiderio bruciante di scoprire chi era stato. Era possibile che la colpevole sedesse a quel tavolo, a bere vodka davanti a lei, e l'idea le diede un brivido. Per quanto Ximena non le dispiacesse, qualcosa non tornava: era sfuggente, ambigua, una truffatrice in cerca di una via di fuga. Di nuovo come lei, insomma. Versò la vodka, affabile, e scivolando nell'ubriachezza si domandò se la infastidiva davvero che Ximena le avesse preso i soldi e approfittasse della sua ospitalità con quell'insolenza: doveva confessare che per certi versi era divertente. Uno scherzo atroce, se era vero. E se era vero, la cilena era un'attrice fenomenale: un'autentica professionista. Guardò Ximena negli occhi come meglio poteva, e di colpo ci ripensò. Non c'erano segni d'astuzia, di tradimento, di stratagemma. Questo era il problema: sbagliare, su una persona, era facile come indovinare. L'ago della bussola morale cambiava direzione da un momento all'altro.

Roberto Calasso, La Folie Baudelaire, 2008

Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo rapinoso automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua vibrazione che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi.

John Banville, L'intoccabile, 1997

«Diceva Diderot», dissi, «diceva Diderot che ciò che facciamo non è altro che erigere una statua a nostra immagine dentro noi stessi - idealizzata, certo, ma sempre riconoscibile - e poi passiamo la vita impegnati nello sforzo di assomigliarle. È questo l'imperativo morale. Mi sembra una cosa terribilmente acuta, non ti pare? Io so che è così che mi sento io. Solo che ci sono volte in cui non saprei dire qual è la statua e quale sono io.»

Elfriede Jelinek, Voracità, 2000

È quello che è, no, qualcosa gli manca. È totalmente privo di una dimensione, la dimensione che lo informa che oltre a lui esistono anche altre persone. È come se voi sapeste, sì, che ora è, ma non in quale anno vi trovate, in quale mese, in quale giorno, e queste sono unità che, anche se estranee e accettate con riluttanza, tengono tra le mani le scadenze della nostra vita.

Honoré de Balzac, Illusioni perdute, 1843

In molte famiglie s’incontra un essere fatale che, per la famiglia, è una specie di malattia. Io per voi sono quest’essere. L’osservazione non è mia, ma di un uomo che ha visto molto del mondo. Una sera, si cenava fra amici, al “Rocher de Cancale”. Fra le mille facezie che allora ci scambiavamo, quel diplomatico ci disse che una certa ragazza che con stupore vedevamo rimanere nubile «era ammalata di suo padre». E qui, allora, ci sviluppò la sua teoria delle malattie di famiglia. Ci spiegò come, senza una certa madre, una certa casa avrebbe prosperato, come tale figlio avesse mandato in rovina il proprio padre e come tale padre avesse distrutto l’avvenire e la reputazione dei figli. Anche se sostenuta ridendo, questa tesi sociale fu in dieci minuti appoggiata da tanti esempi che ne rimasi colpito. Tale verità pagava tutti i paradossi insensati, ma argutamente dimostrati, con i quali i giornalisti si divertono tra loro, quando non è presente alcuno da prendere in giro. Ebbene, io sono l’essere fatale della nostra famiglia. Col cuore pieno di tenerezza, agisco come un nemico.

Victor Hugo, I miserabili, 1862

Questo era accaduto a Mario, il quale aveva perfino, per dir tutto, un po' troppo esagerato nella contemplazione. Dal giorno in cui era giunto a esser sicuro di guadagnarsi da vivere, s'era fermato trovando ben fatto esser povero e togliendo quando poteva al lavoro, per darlo al pensiero; val quanto dire che passava intere giornate a pensare, immerso e sprofondato come un visionario nelle mute voluttà dell'estasi e dell'introspezione. Aveva così posto il problema della vita: lavorare il meno possibile materialmente, il più possibile del lavoro invisibile o, in altre parole, dar poche ore alla vita reale e buttare il resto nell'infinito. Non s'accorgeva che, credendo di non mancare di nulla, la contemplazione compresa in questo modo finisce per essere una forma di pigrizia; non s'accorgeva d'essersi accontentato di domare le prime necessità della vita e di riposare troppo presto.

Robert Walser, “Berliner Tageblatt”, 21 settembre 1907

Lo scrittore si occupa di tutto quanto al mondo è degno di essere conosciuto e imparato, ed è sempre profondamente convinto che la cosa sia di giovamento per se stesso e per gli altri. Non appena ha provato un sia pur lieve arricchimento interiore, si crede nell’obbligo di mettere nero su bianco questo incremento e questo ampliamento. E per giunta lo fa immediatamente, senza lasciar passare nemmeno un’ora. Questa io la trovo una bella cosa, perché mostra come lo scrittore sia un uomo mosso da una sincera tensione verso il bene, un uomo che troverebbe ingiusto accumulare delle esperienze senza comunicarle nemmeno in minima parte al mondo che lo circonda. Di conseguenza, è il contrario di uno spilorcio che si arraffa tutto.

Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi, 2014

A volte, il terrore di riuscire ovvi cela l'oscura consapevolezza di esserlo davvero: e la fuga nella forma, a un osservatore attento, non rivela allora un superamento dell'ovvietà, bensì un trucco escogitato per nasconderla. Così, lo ha visto bene Cases, Gadda dà spesso l'impressione di aver fatto all'ultimo momento lo sgambetto alla «parola consueta», che s'indovina ancora dietro le sue scelte lessicali astruse; e Montale, quando spiega certe sue allusioni indecifrabili, conferma che quella indecifrabilità non aveva niente di fatale, che era un po' un ricamo, e dipendeva dalla mera traduzione in codice Morse modernista di un povero feuilleton amoroso.

Iris Murdoch, conversazione con Bryan Magee, 28 ottobre 1977

La grande arte ha un effetto positivo sulle persone proprio perché non è fantasia, ma immaginazione. Spezza la presa della nostra noiosa fantasia quotidiana e ci incita a fare uno sforzo per arrivare alla vera visione. Per la maggior parte del tempo non riusciamo nemmeno a vedere il vasto e grande mondo reale perché siamo accecati da ossessioni, ansietà, invidia, risentimento e paura. Ci creiamo un piccolo mondo privato in cui rimaniamo chiusi. La grande arte è liberatrice, ci rende capaci di vedere ciò che è altro da noi e di trarne piacere. [...]
L'idea di Tolstoj che l'arte sia religiosa è perfetta in questo contesto. Come ho detto, qualsiasi artista serio percepisce la distanza tra sé e qualcosa di altro da sé nei confronti del quale si sente umile, poiché sa che si tratta di qualcosa di molto più dettagliato e meraviglioso e orribile e sorprendente di qualsiasi cosa egli riuscirà mai a esprimere.

Philippe Jaccottet, Carnets 1995-1998

Mozart, Sonata in la per pianoforte e violino: non mi sorprende che Einstein, musicologo, parli a suo proposito di un dialogo dell’anima con Dio. Detto così è impropriamente detto; ma designa perlomeno l’altezza a cui, nell’adagio, vi conduce questa musica. Si potrebbe anche dire che, se non ci sono né Dio né dei, e se non ce ne sono mai stati, simile musica ne dovrebbe far nascere; o che sembra invocarli, convitarli, come Hölderlin fa esplicitamente in «Der Gang aufs Land»; ma implicitamente, come qui, è ancora più probante. Si potrebbe persino andare oltre: in questa musica, essi hanno risposto all’invito.

Virginia Woolf, Al faro, 1927

E poi oltre il colore c’era la forma. Quando guardava, vedeva tutto in modo chiaro, netto; ma quando prendeva in mano il pennello, le cose cambiavano. Nel battito d’ala tra la visione e il quadro si impadronivano di lei demoni che spesso la portavano alle lacrime e rendevano il passaggio dal concepimento all’opera tremendo, com’è tremendo per un bambino un corridoio scuro. Così si sentiva a volte - in lotta contro il rischio terrificante di perdersi d’animo. Doveva dirsi: «Ma questo è quello che vedo, quello che vedo è questo», e tenersi stretto al cuore un patetico resto di visione, che mille forze cercavano di strapparle.

Laurent Mauvignier, I passanti, 2002

Le vite che sembrano uguali non lo sono affatto, perché quelli che ci capiscono non capiscono noi ma solo loro stessi. E noi amiamo l’estraneità degli altri per ciò che di noi vorremmo amare ma non capiamo.

Georges Didi-Huberman, Devant le temps, 2000

Di fronte a un’immagine, per quanto antica possa essere, il presente non smette mai di riconfigurarsi […]. Di fronte a un’immagine, per quanto recente, contemporanea possa essere, il passato al tempo stesso non smette mai di riconfigurarsi, perché quell’immagine diventa possibile solo in una costruzione della memoria, se non dell’ossessione. Di fronte a un’immagine, infine, dobbiamo riconoscere con umiltà che essa probabilmente ci sopravvivrà, che siamo noi l’elemento fragile, passeggero, e che è l’immagine l’elemento futuro, l’elemento della durata. L’immagine ha spesso più memoria e più avvenire di chi la guarda.

Adelina Suber, L’idiota e la scena degli addii, 2006

Sapete perché il principe, e gli epilettici, rimpiangono le loro crisi (ed è Myškin a dirlo)? Perché essi hanno visto qualcosa. Posso chiamarla: quella foglia? - domandò, seducente, il professor Coseno che, serrando gli occhi, continuò: - Essi hanno già memoria del futuro. Non si tratta di futura memoria, o di futuro della memoria, ma di memoria del futuro. Loro il futuro se lo ricordano. E questo crea angoscia, rallenta il loro riprendersi dalle crisi. Ci mettono ore, alcuni, il mio principe, anche dei giorni.

Henry James, Le bostoniane, 1886

Queste ore di lucidità a ritroso si presentano a tutti, uomini e donne, per lo meno una volta, quando leggono il passato alla luce del presente, con i motivi delle cose, simili a pali indicatori inosservati, sporgenti dove non li avevano mai visti sin lì. Il tragitto dietro di loro è tracciato e raffigurato, con i suoi passi falsi, le osservazioni erronee, tutta la sua infatuata, illusa geografia.