Io ho convissuto per più di quattordici anni con una persona, benché chi mi conosce poco mostri sempre un candido stupore nell'apprendere l'informazione: - Ma dài, non l'avrei mai detto.
Non lo so perché. O meglio, non so quali dovrebbero essere i segni di una convivenza di quattordici anni, se esista un codice, un certo modo di parlare, di muoversi, un'alterazione nei lineamenti. Forse è perché non sono mai riuscita a usare espressioni come “il mio compagno”, “il mio ragazzo”, “il mio uomo”, “il mio partner”, “il mio fidanzato”. Il punto è che mi sono sempre sembrate delle forme di ostentazione, uno statement, come a dire «Io ce l'ho, e tu?». Una morale da telefilm americano, in cui la mancanza di un invito al ballo di fine anno rischia di compromettere a vita il tuo accesso nella società. Ogni volta che sento qualcuno dire “mia moglie”, “mio marito”, “il mio fidanzato”, “la mia compagna”, ho sempre la sensazione che stia cercando di dimostrare qualcosa, che voglia far sapere al mondo di aver ricevuto l'invito al ballo.