Wolfgang Hilbig, »Ich«, 1993
Io vivevo in un mondo immaginario... poteva succedere di continuo che dentro di me la realtà si facesse fantastica, anomala, e che da un momento all'altro l'unica tranquillità che mi restava fosse una simulazione difficile da sostenere. Non c'è da stupirsi, in fondo eravamo sottoposti alla sollecitazione costante di ravvisare un comportamento che magari nemmeno esisteva. Vivevamo un conflitto interiore: eravamo impegnati a indagare senza tregua quanto la realtà si fosse già approssimata alle nostre fantasie... ma non dovevamo credere che le nostre fantasie si sarebbero realmente potute avverare. No, nemmeno noi credevamo alle nostre fantasie, perché accertavamo di continuo - per noi stessi! - che non c'era motivo di crederci, che non erano credibili. Ma era difficile indagare senza immaginare che cosa avremmo dovuto acclarare ed eventualmente impedire accertando, possibilmente impedire già in nuce, come da nostro obiettivo dichiarato. Per questo era necessario simulare che la realtà corrispondesse in nuce alle nostre fantasie... quando, mi chiedevo, saremmo arrivati al punto di non riuscire più a classificare senza ombra di dubbio se le cose su cui indagavamo appartenevano ancora all'ambito della simulazione o in nuce erano già diventate realtà? I termini “ancora” e “già” esprimevano il nostro tormento: la simulazione poteva trasformarsi in realtà, e dov'era il discrimine? Poteva, ciò che era ancora simulazione, essere già diventato realtà prima che lo accertassimo? Se la simulazione poteva diventare realtà, la realtà poteva risponderci con la simulazione: avessimo dovuto accettare anche questo, con ogni probabilità saremmo stati perduti... e quindi non dovevamo crederci affatto.