Matteo Marchesini, La voce del coniglio, 2017
A poco a poco, come succedeva sempre, il discorso s'incanalò prudente verso i tipi umani più bizzarri, le macchiette che permettevano ricami divertenti e del tutto estranei alla situazione. Ma mentre lui inanellava una battuta dietro l'altra in una virtuosa e disperata fuga da quel cucinotto, la madre metteva in ogni riferimento un'allusione neanche troppo velata al rapporto tra loro due. Quando il dialogo sembrava smagliarsi lasciando intravedere al suo centro il grumo di rancori irrisolti, Pietro svelto riprendeva a tessere il filo, rallentava e accelerava in un saliscendi oratorio sinuoso, da surfista - e lei intanto capitalizzava le storie per i propri fini, apriva squarci privati, scavava brecce, braccava ogni dettaglio costringendolo a divenire la pietra angolare di una digressione accusatoria. Nei momenti in cui l'equilibrio delle forze appariva perfetto, lui avrebbe voluto scattare una fotografia e uscire da quella casa per non tornarci mai più. Pensò che in fondo era abitato dalla stessa voglia di finire che agitava ogni frenesia di lei: voglia ora di ottenere un premio, ora di essere immortalato in una verità definitiva come una statua, ora di cedere le armi, esausto, vedendosene riconoscere l'onore. Voglia, soprattutto, di non avere più nulla a cui pensare - nessuna vergogna, nessun compito, e di restare intatto su una scena depurata di qualunque asperità: in una parola, voglia di kitsch.