Lawrence Osborne, Il regno di vetro, 2020

Ma dietro l'apparenza spaurita Sarah non era meno ostile. Attendeva soltanto di vedere come si comportava Ximena. Bevvero insieme, lugubri, e Sarah la osservò per vedere se aveva ragione a essere diffidente: c'era qualcosa che Ximena non le diceva; recitava la parte dell'innocente in un modo che Sarah riconobbe fin troppo bene. Lo faceva anche lei, dopotutto. Fu un gioco tra gatto e topo, come sempre fra gli esseri umani, e spesso il gatto diventa topo, e viceversa. E lei era diventata il topo del ricattatore e questo la riempiva di rabbia perché era stata usata e ingannata. Nemmeno la grande April Laverty era riuscita a usarla. Ma la ruota girava e l'aveva abbindolata il primo venuto. Per questo la ossessionava il desiderio bruciante di scoprire chi era stato. Era possibile che la colpevole sedesse a quel tavolo, a bere vodka davanti a lei, e l'idea le diede un brivido. Per quanto Ximena non le dispiacesse, qualcosa non tornava: era sfuggente, ambigua, una truffatrice in cerca di una via di fuga. Di nuovo come lei, insomma. Versò la vodka, affabile, e scivolando nell'ubriachezza si domandò se la infastidiva davvero che Ximena le avesse preso i soldi e approfittasse della sua ospitalità con quell'insolenza: doveva confessare che per certi versi era divertente. Uno scherzo atroce, se era vero. E se era vero, la cilena era un'attrice fenomenale: un'autentica professionista. Guardò Ximena negli occhi come meglio poteva, e di colpo ci ripensò. Non c'erano segni d'astuzia, di tradimento, di stratagemma. Questo era il problema: sbagliare, su una persona, era facile come indovinare. L'ago della bussola morale cambiava direzione da un momento all'altro.