Antonio Moresco, “Il primo amore”, febbraio 2011

Non c'è nient'altro? Ciò che è stato chiamato “letteratura” non è nient'altro, non può essere nient'altro? Solo un piccolo gioco di società, un passatempo, qualcosa che ci intrattiene in attesa dell'ora della nostra morte? Ma se è solo questo e non c'è nient'altro, se si può giocare tutto e solo dentro questo piccolo gioco, allora vuol dire che non c'è niente. E, se non c'è niente, allora anche tutti i baracconi editoriali e quelli giornalistici, e le persone che ci vivono e che ci lavorano dentro, e i loro proprietari e i loro editori, quelli virtuosi e quelli non virtuosi, e i lettori, quelli che la pensano in un modo e quelli che la pensano in un altro, e gli scrittori, quelli che pubblicano con uno e quelli che pubblicano con l'altro, non sono altro che un puro transito di cibo e di feci.
Perché uno scrittore, anche oggi, non dovrebbe poter dire questo, se è così che sente la sua vita, la vive? Se non c'è nient'altro, allora anche lo scrittore non è niente, non conta niente, anche se sta dentro il cortocircuito contingente di un'etica e delle sue applicazioni. Se non c'è questa trascendenza, se non può esserci, se non può essere possibile questa invenzione dentro la vita, se la vita non può inventarsi la vita, allora non c'è niente, non c'è niente, non c'è neppure il territorio in cui anche l'etica può sognare un sogno più grande, e non solo essere la rotellina di un orologio in un universo dove non esiste più il tempo.