Javier Cercas, Tornare a casa, 2006
Oggi quasi nessuno se lo ricorda più, ma anni fa al mio paese gli uomini si suddividevano in due categorie: quelli del palo e tutti gli altri. La distinzione era fondamentale. Al sabato sera nel bar di Juan si ballava, e la gente si metteva i vestiti della festa; lì, al centro del locale, c'era una colonna: la chiamano il palo. Quando la musica cominciava, quelli che sapevano ballare ballavano; quelli che non sapevano ballare, restavano tutta la notte attaccati al palo. Erano quelli del palo. Ovunque fossero, quelli del palo li si riconosceva subito, perché si vedeva lontano un miglio che morivano dalla voglia di divertirsi ma erano terribilmente negati. Dato che non avevano la minima idea di come si fa a vivere, vivevano in permanente disaccordo con la realtà, e di conseguenza conducevano un'esistenza amara: non ballavano, non ridevano, non corteggiavano le ragazze. Attaccati al palo, stavano a guardare. I più covavano rancore; solo pochi godevano della felicità altrui. La prima volta che andai a ballare lo feci con mio padre, che era un ballerino apprezzabile; uscendo, una volta finite le danze, mi guardò trattenendo le lacrime. «Figlio mio» mi disse «tu sarai sempre uno di quelli del palo». Allora compresi che la più grande aspirazione di quelli del palo era riuscire un giorno a smettere di essere uno di quelli del palo. È molto difficile, quasi impossibile - richiede una vita di ascesi - però a quelli del palo Cervantes ha insegnato una volta per tutte che la vera gloria consiste nel mettercela tutta. Quelli del palo sanno che ballare significa annullare il tempo, e che annullare il tempo è come annullare la morte, e annullare la morte equivale ad annullare l'infelicità. Quelli del palo vivono nel tempo, che li rode; quelli che ballano, in un eterno istante. Come in ogni altra, nella mia generazione abbondano quelli del palo: nessuno ci ha definito meglio di Enric Sòria, che, in una poesia memorabile, aggrappato al palo diagnostica la nostra infermità, invitandoci a godere della «grazia disinvolta, involontaria», della «prodiga allegria che soggioga» degli altri, di quelli che se la spassano ballando.