Dario Voltolini, intervista “Maltese”, dicembre 1996
Tutte le lingue hanno la stessa gamma di possibilità denotative, cioè possibilità di significare. Questo significa che le lingue si somigliano quando devono dire delle cose, ma si differenziano per il suono che fanno dicendole. Tutte le lingue umane sono così. Ora, io scrivo in italiano. Dico cose che potrei dire in giapponese, se lo conoscessi. Ma dico comunque cose che “suonano” in italiano e che non suonerebbero allo stesso modo in giapponese. Per tutti è così. Ma, poiché una regola canonica della scrittura in prosa ha sempre detto di fare in modo che la frase non richiami l'attenzione su di sé (con rime interne, assonanze o cacofonie, ripetizioni ravvicinate, e così via), ecco che chi scrive in prosa cerca di combinare le parole in modo che il loro suono non copra il loro significato. Questo grado zero della sonorità può essere raggiunto solo perché il suono della lingua madre ci accompagna sempre e qualcosa che gli si accordi passa sullo sfondo. Non già perché sia possibile in assoluto azzerare il suono della lingua. Questo va tenuto ben presente. Ecco però allora che a me vien voglia spesso - non sempre - di farlo invece ben percepire, questo suono, uno di questi suoni dell'italiano. Se io ascolto uno che mi legge un brano in una lingua sconosciuta, ciò che sento è uno dei possibili modi in cui quella lingua suona. Se invece ascolto uno che mi legge in italiano, ciò che sento è tendenzialmente non il suono dell'italiano, ma il significato di quello che mi sta dicendo. Naturalmente con gran parte dei componimenti poetici accade che anche il suono della mia lingua mi risulti percepibile, oltre al senso delle parole. È come capire una lingua sentendola però suonare come se fosse sconosciuta e straniera. Non dico che questo sia un compito della poesia, però è indubbio che sia uno dei suoi possibili effetti. Ecco, a me piace l'idea di azzardare qualche passo in questa direzione anche scrivendo - e amando scrivere - in prosa.