Uwe Johnson, Jahrestage, vol. I, 1970

la memoria le è venuta in aiuto agli esami, nei test, negli interrogatori, la sorregge attraverso il lavoro quotidiano, e per un uomo vale come bell’elemento decorativo; a lei della memoria è sempre interessata la funzione del ricordare, non l’immagazzinare, il riprodurre, il ritornare nel passato, la ripetizione di ciò che è stato: rivivere di nuovo quei momenti, di nuovo essere in quei luoghi. Questo non è possibile.
Se la memoria potesse comprendere il passato nelle forme nelle quali noi incaselliamo la realtà! Ma il reticolo a più piani di tempo terrestre e causalità, logica e cronologia, che noi usiamo per pensare, non dipende dal cervello, dove noi ripensiamo ciò che è stato. (I concetti del pensiero non hanno corso nemmeno nel luogo dove esso si produce; col cervello dobbiamo camparci.) Il deposito della memoria non è proprio fatto per riprodurre. È appunto al richiamo di una connessione di eventi che si oppone. Un impulso, una congruenza anche solo parziale, una cosa che non c’incastra nulla, e vengono fuori sciorinati fatti, numeri, lingue straniere, gesti scorrelati; dagli in pasto un odore di pece, di marcio, eppur fresco, come portato dal vento, una nota di gusto nella rinomata insalata di pesce di Gustafsson, e pregalo di scovare un contenuto per il vuoto che un tempo fu realtà, sensazione viva, fatto accaduto; la tua preghiera resterà inesaudita. Il blocco lascerà trapelare lacerti, schegge, spezzoni, filacci che andranno a ricoprire a caso l’immagine depredata e priva del suo contesto, calpesteranno le tracce della scena che si voleva ricostruire, e così siamo ciechi a occhi aperti. Quel pezzo di passato che ci appartiene poiché c’eravamo rimane nascosto dentro a un segreto, impenetrabile alla formula di Alì Babà, inavvicinabile nel suo gesto di rifiuto, privo di parola e affascinante come un enorme gatto grigio dietro al vetro della finestra, visto da molto in basso come con occhi di bimba.