Lucia Berlin, Aspetta un attimo, 1999

Tanti, tanti altri se ne sono andati. Un tempo mi faceva ridere sentire frasi tipo: «Ho perso mio marito». Ma la sensazione è proprio quella. Che la gente scompaia. Paul, la zia Chata, Buddy. Capisco come si possa credere nei fantasmi, o fare sedute per evocare i morti. Passo anche mesi interi senza pensare ad altro se non ai vivi, poi ecco Buddy che arriva con una battuta, oppure tu, vivida, evocata da un tango o da un'agua de sandia. Se solo potessi dirmi qualcosa. Sei peggio del mio gatto sordo.
L'ultima volta che sei venuta è stato qualche giorno dopo la tormenta. Il terreno era ancora coperto di ghiaccio e neve, ma poi era arrivata una giornata calda, un colpo di fortuna. Gli scoiattoli e le gazze schiamazzavano, i passeri e i fringuelli cinguettavano sugli alberi spogli. Ho aperto tutte le porte e le tende. Bevevo il mio tè seduta al tavolo della cucina con il calore del sole sulla schiena. Le vespe sono uscite dal nido sul porticato, sono entrate in casa mia, ronzando sonnolente intorno alla cucina. Proprio in quell'istante si è scaricata la batteria dell'allarme antincendio, che ha cominciato a frinire come un grillo in estate. Il sole sfiorava la teiera, il barattolo della farina, la scatola argentea dei dadi.
Una luce pigra, come un pomeriggio messicano nella tua stanza. Vedevo il sole sul tuo viso.