David Foster Wallace, Caro vecchio neon, 2004

C'era un paradosso logico di fondo che io chiamavo il «paradosso dell'impostura» e che avevo scoperto praticamente da solo mentre seguivo un corso di logica matematica a scuola. [...] Il paradosso dell'impostura era che più tempo e più impegno mettevi nel cercare di far colpo sugli altri o di affascinarli, meno sorprendente o affascinante ti sentivi dentro: eri un impostore. E più ti sentivi un impostore, più ti sforzavi di offrire un'immagine sorprendente o piacevole di te stesso per evitare che gli altri scoprissero che razza di persona vuota e disonesta eri per davvero. Verrebbe logico pensare che non appena un diciannovenne all'apparenza intelligente si fosse reso conto del paradosso, avrebbe smesso di essere un impostore per limitarsi a essere se stesso (qualunque cosa fosse) perché aveva capito che essere un impostore significava regredire perversamente all'infinito col risultato di trovarsi spaventati, soli, alienati ecc. Ma ecco spuntare un altro paradosso di ordine superiore, che non aveva né una forma né un nome: io non l'ho fatto, non potevo farlo.